In vetta al Monte Bianco a meno di un anno da un infarto
Il 7 luglio 2009 due cardiopatici genovesi sono arrivati in cima al Monte Bianco (4810 m s.l.m.) a conclusione di un percorso affrontato con il Centro territoriale di prevenzione e riabilitazione cardiovascolare ASL3 “Genovese”. L'intervista al Dr. Piero Clavario, responsabile della struttura sanitaria genovese che ha seguito il progetto di riabilatazione.
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Verso la Cima del Monte Bianco
Alberto Rizzerio
E' l'ennesima conferma che le cardiopatie si possono superare! Il 7 luglio 2009 alle 8,30, dopo 5 ore e mezza di scalata, Lucio Siboldi e Gian Cuni - accompagnati dall'istruttore Cai Celso Merciari e da Cesare Barone, cardiologo e responsabile medico sul campo - hanno raggiunto quei 4810 metri che stavano in cima ai loro sogni: quelli della vetta del Monte Bianco (s.l.m.). Lucio Siboldi, bancario con la passione per la montagna, meno di un anno fa, proprio durante una gita in montagna, aveva lamentato i sintomi di un infarto e certo non aveva pensava possibile un suo ritorno all’alpinismo in tempi così brevi. Gian Cuni, l'altro cardiopatico, sognava questo momento da 10 anni, da quando anche lui aveva avuto l'infarto.
Per entrambi la vetta del Monte Bianco è un traguardo raggiunto, grazie all'aiuto del Centro territoriale di prevenzione e riabilitazione cardiovascolare ASL3 “Genovese”, con molta dedizione, costanza ma anche con il coraggio di credere in un sogno possibile. Anzi, assolutamente possibile. Come ci spiega il Dr. Piero Clavario responsabile della struttura sanitaria genovese che ha seguito il progetto di riabilatazione.
Dottor Piero Clavario, perché la montagna e l'alpinismo per un programma di recupero di cardiopatici. Ha delle valenze particolari questa scelta?
In realtà è una scelta dei nostri pazienti. Entrambi, sia Lucio sia Gian, praticavano l’alpinismo prima dei problemi di cuore che poi li hanno portati a rivolgersi al nostro centro, che si occupa appunto di riabilitazione cardiovascolare e che ha quindi come scopo il pieno recupero dei pazienti. Loro ci hanno raccontato della loro passione e del loro sogno, quello di scalare il Bianco, un traguardo fisico, psicologico e di orgoglio. Noi li abbiamo assecondati, abbiamo preparato un programma specifico che li portasse a raggiungere il loro obiettivo. Un lavoro di squadra, insomma, perché i nostri alpinisti sono una squadra e perché anche il team medico ha lavorato come un gruppo affiatato che ha portato tutti noi, simbolicamente, in vetta al Bianco insieme a loro.
Qual è il ruolo e l'importanza dell'attività fisica per chi ha subito una cardiopatia. E che tipo di attività è consigliata?
L’attività fisica è una vera terapia per il cardiopatico, esattamente come i farmaci, ed è molto importante perché riduce il rischio che si manifestino nuovi problemi. Le attività più adatte sono quelle che noi medici definiamo “aerobiche” come camminare, fare jogging, nuotare e andare in bicicletta. Ma anche qui le preferenze del paziente sono prioritarie: può andare benissimo anche il ballo latino-americano! L’importante è la gradualità e la costanza nel fare attività. Almeno 30-40 minuti, tre volte la settimana.
Raggiungere la Cima del Monte Bianco. Quali sono i rischi per un cardiopatico che affronta un percorso riabilitativo come il vostro?
In realtà nessun rischio, nel senso che abbiamo consentito a queste persone di fare la scalata solo e soltanto perché tutti gli esami medici avevano permesso di stabilire che erano entro ampi margini di sicurezza. Inoltre, il livello di forma fisica raggiunta era tale da garantire energie ampiamente superiori a quelle richieste per la scalata.
Sorge spontanea una domanda... ma era proprio necessario salire il Monte Bianco?
Sono loro che avevano questo desiderio. Per noi è importante che i pazienti non solo sopravvivano alla malattia ma, se possibile, recuperino una vita piena. E cosa conferisca alla loro vita pienezza lo possono decidere solo loro. I rischi, come ho detto prima, in questo caso erano soltanto quelli che corrono tutti coloro che scalano una montagna. Dal punto di vista cardiologico addirittura i nostri cardiopatici erano molto più in forma di molti alpinisti “normali“.
Quali sono state le linee guida del percorso che ha permesso a Lucio Siboldi e Gian Cuni di arrivare in cima al Monte Bianco?
Per sintetizzare, le fasi del percorso sono tre. La prima è la valutazione delle conseguenze dell’infarto, quale prezzo si è pagato in termine di funzione persa del cuore. La seconda è programmare l’allenamento controllando passo passo i miglioramenti della forma e valutare se questa è sufficiente per permettere l’esercizio ad alta quota. L’ultima fase è quella di simulare in laboratorio le condizioni di altitudine per capire se l’esercizio in quell’ambiente provoca o meno problemi all’apparato cardiovascolare .
Com'era composto il team e quali difficoltà avete incontrato lungo la preparazione?
Il team principale è costituito da due cardiologi, uno dei quali, il dottor Cesare Barone, è alpinista lui stesso ed ha accompagnato gli alpinisti cardiopatici sul campo in tutte le sedute di allenamento e in tutte le uscite in montagna fino a quella finale sulla cima del Bianco. Inoltre ruoli essenziali hanno ricoperto sia l’infermiera, Tiziana Zappulla, sia la fisioterapista, Elisabetta Capurro. Oltre a loro è stato necessario coinvolgere di volta in volta altri specialisti esterni per risolvere problemi specifici, da medici specialisti in medicina nucleare per le scintigrafie cardiache, agli aritmologi per la valutazione del rischio aritmico fino al Dott. Saverio Panico, Capo Servizio Sanitario del Comando Subacqueo Incursori della Marina Militare per gli esami di simulazione di sforzo in quota.
Quale importanza ha il lato umano in un'esperienza come la vostra. E quanto conta il "team"?
Il lato umano è assolutamente fondamentale, quella che noi medici chiamiamo empatia, che poi vuol dire cercare di mettersi nei panni del nostro paziente e non giudicarlo per quelle che sono le sue aspirazioni e i suoi valori.
Pensate che questo "protocollo" possa essere esteso ad altri pazienti? E quali sono eventualmente i suoi limiti?
Il nostro progetto è nato per portare Lucio e Gian in vetta al Monte Bianco in sicurezza, è un progetto clinico e non ha ambizioni scientifiche. Credo però che abbia un valore generale dal punto di vista della comunicazione. E’ una testimonianza forte, rivolta a chi ha un problema di cuore e pensa che la sua vita sia finita, che non potrà più essere piena come prima. Oggi la scienza ci permette di accompagnare chi ha avuto problemi di cuore verso un pieno recupero in totale sicurezza. Certo ci vogliono attenzione, determinazione e costanza, però nessun obiettivo deve essere considerato impossibile da raggiungere.
Quale sarà il futuro per i due alpinisti cardiopatici del vostro programma, potranno svolgere un'attività alpinistica autonoma?
Il futuro dei nostri alpinisti cardiopatici è quello di tante altre gite ed escursioni in montagna. Hanno imparato come ci si allena e a cosa si deve stare attenti dal punto di vista cardiovascolare e adesso possono fare da soli. E’ chiaro che continueranno a sottoporsi ai controlli periodici che tutti i cardiopatici devono effettuare.
Quale consiglio si può dare agli appassionati della montagna che hanno sofferto o soffrono di cardiopatie ma che vogliono continuare a frequentare le montagne?
E’ importante che capiscano che il fatto che due infartuati sono saliti sul Bianco non significa che chiunque lo può fare. Questi alpinisti sono stati e sono degli atleti e, anche se hanno avuto un serio problema di cuore, si sono allenati per tutto il tempo necessario e si sono sottoposti a tutti gli esami che abbiamo ritenuto necessari. Andare in montagna con il “fai da te” sarebbe stata una imperdonabile e assurda imprudenza. Chi ha problemi di cuore e vuole andare in montagna parli con il suo cardiologo di fiducia, se non ne ha uno lo cerchi, e provi a fargli capire quanto importante per lui può essere tornare in montagna. Esistono in Italia numerosi centri di cardiologia, e soprattutto di riabilitazione cardiologica, che sono particolarmente attrezzati per poter dare una risposta adeguata a questo tipo di richiesta.
Cosa le ha insegnato quest'esperienza con gli alpinisti?
Un progetto così ambizioso e complicato che si è concluso con un grande successo cambia un po’ ciascuno dei partecipanti, compresi quelli del team medico. Io ho fatto vari sport in vita mia, ma non avevo nessuna esperienza diretta della montagna e ne sono rimasto affascinato. Non tanto e non solo per i panorami e il contatto con una natura a volte anche ostile e quasi brutale, ma soprattutto per l’incontro con gli uomini e le donne che hanno la passione della montagna, i legami forti che uniscono i componenti di ciascuna squadra di alpinisti e che sono il vero motore che li porta a raggiungere insieme i loro obiettivi. E da medico, la fortuna di aver avuto la possibilità di accompagnare dei pazienti dal momento della paura per l’incontro con la malattia all’impegno e la determinazione per raggiungere il loro obiettivo, fino all’emozione che si prova in cima alla vetta che si è sognato di poter raggiungere. Forse qualcuno di loro potrà ricordarlo come un momento di felicità, noi tutti del team lo ricorderemo come una grande soddisfazione professionale ed umana.
Per entrambi la vetta del Monte Bianco è un traguardo raggiunto, grazie all'aiuto del Centro territoriale di prevenzione e riabilitazione cardiovascolare ASL3 “Genovese”, con molta dedizione, costanza ma anche con il coraggio di credere in un sogno possibile. Anzi, assolutamente possibile. Come ci spiega il Dr. Piero Clavario responsabile della struttura sanitaria genovese che ha seguito il progetto di riabilatazione.
Dottor Piero Clavario, perché la montagna e l'alpinismo per un programma di recupero di cardiopatici. Ha delle valenze particolari questa scelta?
In realtà è una scelta dei nostri pazienti. Entrambi, sia Lucio sia Gian, praticavano l’alpinismo prima dei problemi di cuore che poi li hanno portati a rivolgersi al nostro centro, che si occupa appunto di riabilitazione cardiovascolare e che ha quindi come scopo il pieno recupero dei pazienti. Loro ci hanno raccontato della loro passione e del loro sogno, quello di scalare il Bianco, un traguardo fisico, psicologico e di orgoglio. Noi li abbiamo assecondati, abbiamo preparato un programma specifico che li portasse a raggiungere il loro obiettivo. Un lavoro di squadra, insomma, perché i nostri alpinisti sono una squadra e perché anche il team medico ha lavorato come un gruppo affiatato che ha portato tutti noi, simbolicamente, in vetta al Bianco insieme a loro.
Qual è il ruolo e l'importanza dell'attività fisica per chi ha subito una cardiopatia. E che tipo di attività è consigliata?
L’attività fisica è una vera terapia per il cardiopatico, esattamente come i farmaci, ed è molto importante perché riduce il rischio che si manifestino nuovi problemi. Le attività più adatte sono quelle che noi medici definiamo “aerobiche” come camminare, fare jogging, nuotare e andare in bicicletta. Ma anche qui le preferenze del paziente sono prioritarie: può andare benissimo anche il ballo latino-americano! L’importante è la gradualità e la costanza nel fare attività. Almeno 30-40 minuti, tre volte la settimana.
Raggiungere la Cima del Monte Bianco. Quali sono i rischi per un cardiopatico che affronta un percorso riabilitativo come il vostro?
In realtà nessun rischio, nel senso che abbiamo consentito a queste persone di fare la scalata solo e soltanto perché tutti gli esami medici avevano permesso di stabilire che erano entro ampi margini di sicurezza. Inoltre, il livello di forma fisica raggiunta era tale da garantire energie ampiamente superiori a quelle richieste per la scalata.
Sorge spontanea una domanda... ma era proprio necessario salire il Monte Bianco?
Sono loro che avevano questo desiderio. Per noi è importante che i pazienti non solo sopravvivano alla malattia ma, se possibile, recuperino una vita piena. E cosa conferisca alla loro vita pienezza lo possono decidere solo loro. I rischi, come ho detto prima, in questo caso erano soltanto quelli che corrono tutti coloro che scalano una montagna. Dal punto di vista cardiologico addirittura i nostri cardiopatici erano molto più in forma di molti alpinisti “normali“.
Quali sono state le linee guida del percorso che ha permesso a Lucio Siboldi e Gian Cuni di arrivare in cima al Monte Bianco?
Per sintetizzare, le fasi del percorso sono tre. La prima è la valutazione delle conseguenze dell’infarto, quale prezzo si è pagato in termine di funzione persa del cuore. La seconda è programmare l’allenamento controllando passo passo i miglioramenti della forma e valutare se questa è sufficiente per permettere l’esercizio ad alta quota. L’ultima fase è quella di simulare in laboratorio le condizioni di altitudine per capire se l’esercizio in quell’ambiente provoca o meno problemi all’apparato cardiovascolare .
Com'era composto il team e quali difficoltà avete incontrato lungo la preparazione?
Il team principale è costituito da due cardiologi, uno dei quali, il dottor Cesare Barone, è alpinista lui stesso ed ha accompagnato gli alpinisti cardiopatici sul campo in tutte le sedute di allenamento e in tutte le uscite in montagna fino a quella finale sulla cima del Bianco. Inoltre ruoli essenziali hanno ricoperto sia l’infermiera, Tiziana Zappulla, sia la fisioterapista, Elisabetta Capurro. Oltre a loro è stato necessario coinvolgere di volta in volta altri specialisti esterni per risolvere problemi specifici, da medici specialisti in medicina nucleare per le scintigrafie cardiache, agli aritmologi per la valutazione del rischio aritmico fino al Dott. Saverio Panico, Capo Servizio Sanitario del Comando Subacqueo Incursori della Marina Militare per gli esami di simulazione di sforzo in quota.
Quale importanza ha il lato umano in un'esperienza come la vostra. E quanto conta il "team"?
Il lato umano è assolutamente fondamentale, quella che noi medici chiamiamo empatia, che poi vuol dire cercare di mettersi nei panni del nostro paziente e non giudicarlo per quelle che sono le sue aspirazioni e i suoi valori.
Pensate che questo "protocollo" possa essere esteso ad altri pazienti? E quali sono eventualmente i suoi limiti?
Il nostro progetto è nato per portare Lucio e Gian in vetta al Monte Bianco in sicurezza, è un progetto clinico e non ha ambizioni scientifiche. Credo però che abbia un valore generale dal punto di vista della comunicazione. E’ una testimonianza forte, rivolta a chi ha un problema di cuore e pensa che la sua vita sia finita, che non potrà più essere piena come prima. Oggi la scienza ci permette di accompagnare chi ha avuto problemi di cuore verso un pieno recupero in totale sicurezza. Certo ci vogliono attenzione, determinazione e costanza, però nessun obiettivo deve essere considerato impossibile da raggiungere.
Quale sarà il futuro per i due alpinisti cardiopatici del vostro programma, potranno svolgere un'attività alpinistica autonoma?
Il futuro dei nostri alpinisti cardiopatici è quello di tante altre gite ed escursioni in montagna. Hanno imparato come ci si allena e a cosa si deve stare attenti dal punto di vista cardiovascolare e adesso possono fare da soli. E’ chiaro che continueranno a sottoporsi ai controlli periodici che tutti i cardiopatici devono effettuare.
Quale consiglio si può dare agli appassionati della montagna che hanno sofferto o soffrono di cardiopatie ma che vogliono continuare a frequentare le montagne?
E’ importante che capiscano che il fatto che due infartuati sono saliti sul Bianco non significa che chiunque lo può fare. Questi alpinisti sono stati e sono degli atleti e, anche se hanno avuto un serio problema di cuore, si sono allenati per tutto il tempo necessario e si sono sottoposti a tutti gli esami che abbiamo ritenuto necessari. Andare in montagna con il “fai da te” sarebbe stata una imperdonabile e assurda imprudenza. Chi ha problemi di cuore e vuole andare in montagna parli con il suo cardiologo di fiducia, se non ne ha uno lo cerchi, e provi a fargli capire quanto importante per lui può essere tornare in montagna. Esistono in Italia numerosi centri di cardiologia, e soprattutto di riabilitazione cardiologica, che sono particolarmente attrezzati per poter dare una risposta adeguata a questo tipo di richiesta.
Cosa le ha insegnato quest'esperienza con gli alpinisti?
Un progetto così ambizioso e complicato che si è concluso con un grande successo cambia un po’ ciascuno dei partecipanti, compresi quelli del team medico. Io ho fatto vari sport in vita mia, ma non avevo nessuna esperienza diretta della montagna e ne sono rimasto affascinato. Non tanto e non solo per i panorami e il contatto con una natura a volte anche ostile e quasi brutale, ma soprattutto per l’incontro con gli uomini e le donne che hanno la passione della montagna, i legami forti che uniscono i componenti di ciascuna squadra di alpinisti e che sono il vero motore che li porta a raggiungere insieme i loro obiettivi. E da medico, la fortuna di aver avuto la possibilità di accompagnare dei pazienti dal momento della paura per l’incontro con la malattia all’impegno e la determinazione per raggiungere il loro obiettivo, fino all’emozione che si prova in cima alla vetta che si è sognato di poter raggiungere. Forse qualcuno di loro potrà ricordarlo come un momento di felicità, noi tutti del team lo ricorderemo come una grande soddisfazione professionale ed umana.
Note:
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