Fox Jaw Cirque in Groenlandia, una traversata ed una nuova via per Daniele Bonzi, Francesco Fumagalli e Thomas Triboli
"Tra vent’anni sarete più delusi per le cose che non avete fatto che per quelle che avete fatto. Quindi mollate le cime. Allontanatevi dal porto sicuro, prendete con le vostre vele i venti. Esplorate. Sognate. Scoprite."
Mark Twain
Isolamento, ricerca dell’avventura, voglia di mettersi alla prova (allo sbaraglio), adrenalina allo stato puro… Queste sono state alcune delle motivazioni che ci hanno spinto fino in Groenlandia per vivere un’esperienza fuori dall’ordinario e dalla modernità. Volevamo vivere qualcosa di speciale, unico, ma soprattutto autentico. E così ci siamo ritrovati in questa, per ora, landa dimenticata dal turismo di massa.
Siamo Daniele Bonzi, Francesco Fumagalli e Thomas Triboli. Ci siamo conosciuti durante i corsi del Soccorso Alpino e, con il passare degli anni, siamo riusciti a creare un legame che ci ha portato a realizzare un sogno comune e a partire per questo viaggio nell’East Greenland.
La nostra avventura inizia il 31 luglio, a Tasiilaq (la più grande cittadina della Groenlandia orientale). Veniamo accolti da Robert Peroni (esploratore, alpinista e scrittore di origine altoatesina), presso la sua Red House, e proprio da lì ha inizio la nostra avventura. 70 km di navigazione ci separano dalla destinazione finale: le immense pareti granitiche di Fox Jaw Circus (Mandibola di Volpe).
Il campo base dista 12 km dal punto di sbarco e, in tre lunghi e faticosi viaggi, riusciamo a trasportare 200 kg di attrezzatura e viveri, attraversando torrenti, morene e zone paludose lungo il corso del fiume.
La vita quotidiana qui è dura: non ci sono né comodità né aiuti esterni. Qui possiamo contare solo sulle nostre capacità. I contatti con il mondo sono ridotti ai pochi messaggi via satellite e il cibo è razionato. Niente doccia, e si dorme all’addiaccio, con l’unico deterrente contro la natura selvaggia rappresentato da un vecchio fucile russo.
Dato il meteo favorevole, neanche il tempo di riposare e, dopo un giorno, partiamo subito per il nostro primo obiettivo: la traversata delle Fox Jaw, per la quale avevamo previsto tre giorni di scalata.
Il primo giorno ci rendiamo immediatamente conto delle reali dimensioni di queste pareti. Il Baby Molar ci richiede quasi un’intera giornata di arrampicata per raggiungere la vetta di 1132 metri in 14 tiri.
Dopo aver bivaccato sulla vetta del Baby Molar, con un panorama mozzafiato, ripartiamo alla volta del Molar Spire. Tramite cinque calate giungiamo all’intaglio che separa i due speroni. Da lì, con sei tiri, raggiungiamo il secondo picco a 1270 m, e proseguendo con altri 4 tiri, arriviamo sulla vetta dell’Incisor a 1360 m, dove bivacchiamo per la seconda notte.
Il mattino seguente, vista la discontinuità della linea di cresta e le difficoltà elevate, decidiamo di terminare la traversata e calarci (15 calate) dalla linea di Tears in Paradise, aperta nel 2007 da una spedizione statunitense.
Al rientro al campo, soddisfatti per essere stati i primi a completare il concatenamento delle tre vette, siamo tutti concordi nel condividere le nostre impressioni. Mentre scalavamo, questi orizzonti ci apparivano così labili, enormi e meravigliosamente cinici. Gli spazi sono veramente vasti, ma è la pienezza del giorno che ci stupisce di più: la luce non manca praticamente mai, fa buio solo per 2 ore al giorno.
Abbiamo deciso di chiamare questa traversata Trident VI Orobica per l’analogia con il nome e in onore della nostra comune delegazione CNSAS, dove ci siamo conosciuti. La via presenta 1000 m di dislivello d’arrampicata, con gradi variabili fino al V+ su roccia gneiss. L’arrampicata è tipica di cresta, con terreno spesso appoggiato e risalti verticali che ne determinano le difficoltà. È una via completamente trad, senza materiale lasciato in parete, ad eccezione delle soste per le calate, già attrezzate sfruttando le vie esistenti.
Dopo aver ricaricato le forze con alcuni giorni di svago, riposo e pesca al campo base, decidiamo di provare a salire una linea sul quarto dente, il Cavity Ridge, che si presenta alla nostra vista con un versante di granito di circa 700 metri, mai scalato da nessuna delle spedizioni che ci hanno preceduto. Lo avevamo visto da vicino calandoci il terzo giorno della traversata, e ispezionandolo con il nostro canocchiale, abbiamo deciso una linea che ci sembrava logica.
La sera del 10 agosto portiamo il materiale ai piedi della parete: corda statica, le mezze per la progressione, chiodi, dadi, friend, spit per le soste, moschettoni e cordini. L’indomani, 11 agosto, dobbiamo partire per la salita, ma il brutto tempo ce lo impedisce, costringendoci a rimandare al giorno successivo la nostra uscita.
Il 12 agosto alle ore 3:15 partiamo dal campo base con una leggera nevicata. Dopo un’ora abbondante di cammino, raggiungiamo la base del Cavity Ridge. Ci prepariamo e, intorno alle 6, attacchiamo la parete, sfruttando un’evidente fessura posta sullo zoccolo della montagna. Qui le condizioni non sono buone, a causa della pioggia e della neve, che rendono la roccia e, specialmente, le fessure particolarmente scivolose. Inoltre, la progressione con il saccone carico di materiale ci rallenta molto.
La giornata si apre, il sole ci fa sentire il suo tepore, rendendo la scalata sempre più piacevole e divertente. Avanziamo per diedri, fessure e punti deboli della parete per 12 tiri e circa 600 metri di sviluppo verticale. Intorno alle 23:30 ci arrendiamo, mancano pochi tiri alla vetta, ma siamo stanchissimi e, di comune accordo, cominciamo la discesa in doppia, toccando la base della parete alle 5:30 di mattino, praticamente quasi 24 ore dopo aver attaccato la via. Giungiamo alle tende alle 8:30. Dopo una colazione a base di torta, per festeggiare e calmare i morsi della fame, siamo letteralmente svenuti in tenda fino al tardo pomeriggio.
La via è intitolata No Me Moleste Mosquito, come il ritornello di una canzone dei Doors, e per la presenza di tantissimi moscerini (che fortunatamente ci hanno risparmiati, ad eccezione dei primi due giorni). La roccia è per lo più gneiss di buona qualità, ad eccezione di alcuni tratti più semplici; la via segue le debolezze della parete, sfruttando fessure e diedri con alcuni passaggi in placca ben lavorati. Presenta difficoltà fino al VII grado, con un obbligato di VI+, sempre ben proteggibile. Ad eccezione di uno spit sul tiro chiave, la via è trad, con le sole soste attrezzate con due spit, codino e moschettone di calata. Si sviluppa per 600 m su 12 lunghezze, più una di "trasferimento". Le calate avvengono lungo la via, sulle medesime soste, con l’aggiunta di una tra S13 e S12 per facilitare il traverso.
Con un piccolo rammarico di essere arrivati quasi in cima, ma felici per aver potuto calcare per primi l’immensa parete del Cavity Ridge fin quasi alla sua sommità, ci rendiamo conto che è stato un bellissimo viaggio. Ringraziamo che sia andato comunque tutto bene, anche perché arrampicando e vivendo in questo ambiente è stato chiaro a tutti noi che non ci deve succedere nulla. Qui difficilmente fanno operazioni di soccorso, il confine tra quello che succede e quello che può accadere è molto sottile; anche una banale storta potrebbe metterci in situazioni complicate.
Secondo la tradizione Inuit, le cose che ti possono rendere felice nella vita sono poche e semplici. Ritornare a casa, dopo che è andato tutto bene, ci ha fatto sentire fortunati. Porteremo sempre nel cuore questa terra, le sue genti e i preziosi insegnamenti che ci ha donato.
di Thomas Triboli