Fitz Roy, Supercanaleta e la straordinaria normalità della Patagonia. Di Fabrizio Della Rossa
In cima al Fitz Roy, smorzando la solennità insita nel rituale abbraccio di vetta, dico a Carlo Cosi: "non ho mai fatto così tanta fatica per salire una via normale". Ora qualcuno potrà storcere il naso (non più del mio che si è rotto per una spiccozza fuori posto), e farmi notare che la Supercanaleta non è la via Normale al Fitz Roy. Vi assicuro però che scalare la Franco-Argentina, più corta e più riparata dai venti dell’ovest, sarebbe stato, in quel periodo tanto incrostata di ghiaccio e neve, se non impossibile assolutamente fuori dalla nostra portata.
In effetti in Patagonia, il concetto di via Normale e condizioni delle pareti è tanto fluido quanto il meteo pazzo del luogo. Per tornare alla Supercanaleta, su una via così lunga di ghiaccio e roccia, le condizioni cosiddette buone della via si realizzano nella misura in cui i tratti che si lasciano scalare senza troppi intoppi prevalgono sulle sezioni fastidiose. Ghiaccio buono e roccia pulita sono un miraggio che si avvera con la stessa frequenza dei miracoli.
Armati di questa speranza siamo partiti. La strategia in Patagonia è quasi tutto, e le previsioni meteo sono le migliori alleate dello stratega; così dopo aver delineato il nostro piano, rompendoci la testa ad ogni aggiornamento meteo, partiamo con molti dubbi ma una buona certezza: dopodomani a mezzogiorno dovremo essere molto distanti dalla cima del Fitz Roy dove vento e neve presumibilmente scateneranno l’inferno.
Al mattino del 21 Gennaio pare che il gran vento della precedente notte si sia calmato, come da copione. Così ci infiliamo veloci in quello stretto budello che è la Supercanaleta.
Alle due di pomeriggio il sole atteso ancora gioca a nascondino tra le nubi, ma un inossidabile ottimismo ci pervade: i tiri di roccia si presentano come cascate di ghiaccio su cui ramponi e picche fanno una solida presa. Da alpinisti consumati capiamo che le ore che ci distanziano dalla vetta sono ormai poche e pieni di entusiasmo saliamo baldanzosi.
Le certezze in montagna possono essere dure come il granito dentro ad una pressa industriale, e l’entusiasmo del suddetto consumato alpinista è incline a spegnersi veloce tanto quanto la candelina su una torta di compleanno.
Così noi, sbattuti dal vento, aggrappati alla visione di una vetta che ora scompare inghiottita dalle nubi: le nostre ambizioni e prospettive future si riducono di raggio fino a quei successivi 20 o 30 metri incrostati di "rime" (neve compattata difficile da pulire ma facile da rompere) che il capocordata deve di volta in volta superare. Infine l’uscita in cresta, fuori dalle difficoltà della via, ormai al buio. Girovaghiamo alla ricerca di un quadratino piano di ghiaccio su cui accoccolarsi al gelo della notte, passando il tempo del buio a riempirsi gli occhi di stelle.
Coi primi raggi di sole, la vetta ci accoglie ancora sonnacchiosa: l’aria è immobile e il panorama sul Cerro Torre e il Campo de Yelograndiosa. In fondo è primo mattino: l’uscio della porta è stato lasciato socchiuso, sto entrando in punta di piedi in una stanza che odora di rosa e cannella.
L’allucinazione di preussiana memoria dura poco, giusto il tempo di voltare le spalle alla vetta che le nostre facce vengono graffiate da aghi di ghiaccio sferzati dal vento. Da ospiti non graditi quali ora siamo, cerchiamo di allontanarci senza dare troppo nell’occhio.
La montagna è ora un vecchio professore severo: si è lasciato prendere da un momento di debolezza, a dirti "Bravo, ce l’hai fatta", ma ora con la stessa mano che ti ha accarezzato ti tira un ceffone e ti dice "su non dormire sugli allori, hai ancora tanto da lavorare..." Il ceffone fa un po’ male, come gli aghi di ghiaccio che ci impediscono di vedere. Scendiamo tra le urla di una bufera in forte anticipo sul meteo, maledicendo tutto ciò che ci sta attorno e che di inanimato par avere ben poco.
La montagna Patagonica reclama il suo spazio di solitudine, cosicché anche una volta raggiunta la tenda, ai piedi del ghiacciaio, non c'è pace per noi e, bagnati fradici, sotto una pioggia battente, dobbiamo evacuare la piazzola ormai allagata.
Troveremo riparo solo a notte inoltrata al rifugio del Fraile: dopo un sonno incantevole mi ritrovo al mattino davanti alla stufa, col la pancia piena a trattenere le lacrime di un pianto felice. Non per la felicità di una presunta conquista, bensì intontito da un pasto caldo e un luogo asciutto. A crogiolarmi del benessere necessario. Mentre fuori dal vetro la straordinaria normalità patagonica urla la sua bellezza, tra le vette e i ghiacciai.
Fabrizio Della Rossa, El Chalten, gennaio 2020