Enzo Cozzolino. Il ricordo che si trova, il ricordo che si lascia. Di Flavio Ghio

Un ritratto particolare, profondo ed inedito di Enzo Cozzolino, l'alpinista e arrampicatore triestino che tra gli anni '60 e '70 anticipò tutti i tempi, sperimentando un futuro che nessuno ancora intravedeva. A tracciarlo è Flavio Ghio, suo amico nonché compagno nell'apertura della sua ultima via: la mitica Via dei fachiri alla Scotoni.
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Enzo Cozzolino durante la prima solitaria e prima invernale della Pisoni Stenico alla Torre del Lago, in Fanis (Dolomiti), 1970
archivio Cozzolino

A volte le cose capitano per caso. E forse è stato proprio il caso che mi ha messo in contatto con Flavio Ghio, ovvero il compagno di Enzo Cozzolino sulla via dei Fachiri alla Sud-Ovest della Cima Scotoni (Fanis, Dolomiti). Era il 1972, precisamente il 14 e 15 gennaio, d'inverno dunque, quando aprirono quella via, con quel nome così strano e insieme evocativo, che divenne un mito per tutti gli alpinisti, non solo degli anni '70 ma anche del decennio successivo. La ragione era semplice: Cozzolino e Ghio, in quella salita, su 600 metri di parete avevano usato solo 12 chiodi e tutta la via era in libera. Insomma, rispetto alla classica via degli Scoiattoli (che le corre a sinistra e che era stata aperta da L. Lacedelli, L. Ghedina, G. Lorenzi vent'anni prima) la Fachiri era davvero un'evoluzione, anzi una rivoluzione. Non solo di difficoltà (6, 6+ forse 7°) ma soprattutto di stile. D'altra parte Enzo Cozzolino, triestino, classe 1948, da quando aveva cominciato ad arrampicare a 17 anni aveva subito fatto parlare di sé. Era un fenomeno, o meglio un visionario. Era di quelli che non nascono spesso. Di quelli, per capirci, che vedono e indicano il futuro. Infatti l'elenco delle sue vie nuove è lungo, come quello delle sue solitarie. Tutti conoscono, o tutti dovrebbero conoscere, la sua via sul Diedro Nord del Piccolo Mangart (aperta con Armando Bernardini nel 1970). Ma non è di questo, o non solo di questo, che ho chiesto a Flavio Ghio. Enzo Cozzolino ha perso la vita il 18 giugno, in quello stesso 1972 della Fachiri, precipitando dalla Torre di Babele (Civetta, Dolomiti) mentre stava percorrendo da solo la via Friederichsen-Giordani... Ed ora di lui, oltre alle sue stupefacenti vie, cosa ci resta? E' proprio questo che mi interessava capire... (Vinicio Stefanello) 

"Carissimo, mi chiedi di parlare di Enzo Cozzolino. Se non ti ho risposto subito è perché mi hai chiesto di raccontarti la persona; questo mi ha creato un po’ imbarazzo. In effetti, come tu dici, conosco certi fatti. I fatti hanno un'importanza che spesso nella lettura, si sovrappongono alla persona cui si riferiscono, al punto che il soggetto diventa un costrutto grammaticale senza spessore. Ma una persona non si identifica con le cose che porta nello zaino, o con i luoghi che ha attraversato, o con le vie che ha fatto. So che leggi molti articoli che parlano di alpinisti. Ti sarai accorto che togliendo il nome, le vie fatte e qualche aneddoto, dell’articolo rimane poco: è stato un grande alpinista, la montagna era la sua ragione di vita... Il testo qualora venisse riempito da altri nomi, da altre vie, da altri aneddoti potrebbe funzionare lo stesso. Quindi, scrivendo di Enzo vorrei rompere questo schema. Racconterò l’eco di una voce spentasi quarant’anni fa e che oggi non molti ascolterebbero.

L’alpinismo è doppio: da una parte il “vintage”, dall’altra il “modernista” cui interessa il presente, il passato, per lui, è solo un corpo esangue. Un giovane climber disincantato si esprimerebbe così: “Enzo Cozzolino ha aperto vie con passaggi di VII grado cioè massimo un banale 6b. Non ho nessun interesse per un grado così basso; i suoi sforzi, il suo travaglio per riuscirci sono solo un’enorme spreco di energia. Su questa difficoltà, io non aggancio nemmeno i chiodi...” Questo è l’atteggiamento di chi entra nella vita di Cozzolino con lo scopo di prendere un pezzo della sua misura. Come entrare in una palestra e chiedere: Qui ci sono tracciati di 8c?

So che per molti incrementare continuamente le proprie prestazioni è l’unico obiettivo, il resto è ininfluente; può avere qualsiasi forma. In realtà niente può avere qualsiasi forma. Ogni successo, ogni fallimento ha la sua forma specifica e non un’altra. Da vivere sulla propria pelle. Eppure non è difficile capire che, se uno suona il violino, lo fa in quanto il violinista è anche un uomo. Non accadrà mai che un violinista possa essere diverso da un uomo, per esempio un organetto. Per questo, dico: non illudetevi si possa essere solo violinisti, come non si può essere solo climber. L’uomo non è un optional che si può rifiutare per risparmiare fatica.

Da secoli si ripresentano i medesimi problemi, i medesimi scogli. Cambia solo il canto delle sirene e questo è sufficiente per schiantarsi ancora come accadde ai nonni, come accadde ai padri. Certo uno di talento si guadagna da vivere perché è violinista e non perché è semplicemente uomo. Così avviene anche per i top climber; se agli sponsor interessasse l’uomo dovrebbero pagare tutti gli abitanti della terra. Però solo l’uomo può farsi carico del mestiere del vivere: e del violinista e del climber. Questa la lezione di Cozzolino; di questo vorrei parlarti.

Non si può ridurre il Cozzolino uomo, al Cozzolino rocciatore per identificarlo con le salite fatte. Questo non spiegherebbe perché giunto all’apice, Enzo decostruisca quel carattere che gli aveva consentito di raggiungere traguardi invidiabili e recuperi la dimensione umana che aveva trascurato. Di questo passaggio bisognerebbe parlarne in punta di piedi, usando le parole con la parsimonia con cui i cristiani usano l’acqua santa. Come scrive Pavese: “L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia." Forse sbaglio a riassumere in poche frasi ciò che a Enzo è costato molto e forse avrebbe voluto tenere per sé.

Quando lo vidi per la prima volta nella palestra di roccia della Napoleonica, arrampicava da poco e già aveva nei gesti ciò avrebbe fatto in seguito. Mancavano solo i nomi: non li trovò pescandoli a caso. Scrive Spiro Dalla Porta Xydias sull’attività alpinistica di Enzo Cozzolino: “Studiando l’elenco delle sue salite, conoscendo la sua tendenza programmatica da un lato e i suoi fini alpinistici dall’altro, ho creduto di poter cogliere tre momenti diversi. Il primo dedicato particolarmente alle grandi ripetizioni: collaudare le proprie capacità sugli itinerari di roccia più ardui, il secondo è caratterizzato dall’effettuazione in solitaria di vie estremamente difficili; e anche queste non mi sembra siano state fine a se stesse ma gli sono servite a perfezionare ulteriormente il proprio stile e la propria tecnica, portandolo a toccare limiti mai raggiunti prima nel campo dell’arrampicata pura. Il terzo finalmente è quello conclusivo in cui affronta e risolve grandi problemi alpinistici ancora insoluti”

Capisci l’inquietudine? Porsi un obiettivo, inseguirlo raggiungerlo, e giunto al top, lasciarlo per ricorrerne un secondo e un altro ancora; cambiare, inventarsi nuove strade, sempre in silenzio, senza pace, senza tregua... Normalmente si abbandona un percorso se ci procura disagio, non l’ammirazione incondizionata.

Chi racconta i fatti pensando di aver esaurito il suo compito, coglie il senso, la persona? La personalità di Enzo era tale da dare ai fatti qualcosa in più che chiede di essere interpretato e non semplicemente raccontato. Nella prima fase, quella in cui da ragazzo diventa rocciatore, Enzo Cozzolino per aprirsi la “sua” strada tirava ai compagni delle sberle, si fa per dire, non di poco conto.

Quando andò a fare la via Italia ’61, arrivato all’ultimo tiro, invece di seguire i chiodi, traversò a destra in pieno strapiombo senza mettere nulla uscendo sulla cengia dei camosci dopo aver risalito il canalone. Al compagno, pupille dilatate, che lo raggiunse disse laconico: Abbiamo valorizzato la via...

Le sue ripetizioni sono tutte così. In realtà non ha mai ripetuto niente. Il verbo ripetere riferito a ciò che faceva e pensava non ha senso. Quante grandi pareti, ora inflazionate da vie, avrebbero conservato un aspetto selvaggio e meno antropizzato se si fosse seguita questa pratica? Si vuole superare l’impossibile, e si arriva all’insensato. Qualche libertario potrebbe obiettare: chi stabilisce il canone per distinguere ciò che è sensato da ciò che non lo è?

Su una parete della camera di Enzo c’era un verso di E.L. Master citato a memoria:
Dare un senso alla vita può portare a follia.
Ma una vita senza senso è ansia e tormento dell’anima
una barca che anela al mare eppur lo teme
Dice: Siamo esposti, l’impazzire e il riuscire si toccano. Se hai paura, non sciogliere gli ormeggi, non alzare l’ancora. Cozzolino potrebbe sembrare apocalittico e sicuramente questo avranno pensato gli amici la sera in cui iniziava un’altra vita, con queste parole: Scusatemi ma quest’anno non arrampicherò con nessuno di voi ma nemmeno con altri. Arrampicherò da solo. Nessuno può dire cosa gli fosse frullato in capo.

Enzo, a differenza di altri, non è stato un dissacratore, non vedeva nella distruzione uno strumento di innovazione. Aveva considerazione per quanti lo avevano preceduto. Sentiva l'impasse determinata dall’aver ignorato la lezione di Preuss, di Comici non dalla loro mancata collocazione a riposo... Un giorno mi disse: E’ mai possibile che a Trieste nessun alpinista, pur sapendo che Comici ha ripetuto in solitaria la Nord della Grande, abbia sentito il bisogno esplorare questa possibilità? Come è potuto accadere? A parole tutti sono per Cominci ma nei fatti?

Sai cosa significa cambiare, rinascere, dare un nuovo senso alla vita, cercarlo nello spazio vuoto e senza chiodi che sboccia tra te e il ghiaione? Voleva dire rigirare il mondo come un calzino, guardare la montagna con occhi nuovi, proseguire il cambiamento epocale intravisto da Preuss e da Comici. Invece altri cercavano di superali senza aver portato a compimento le loro idee. Enzo lo ha fatto, per questo è stato possibile andare oltre.
Ma la vera svolta, quella più importante è avvenuta successivamente. A quel tempo si diceva di lui: Enzo Cozzolino? Certo 10 e lode come alpinista ma 0 come amico. Poi è cambiato. Completato il percorso alpinistico, ha rivisitato il suo sé. E’ quanto ho scritto in un articolo pubblicato sulla rivista del CAI, nel ‘75, cercando di mettere in luce la lezione di Enzo: Esiste un VII grado che è molto più difficile da raggiungere e che trascende ogni scala di valutazione, quello che ti fa sentire prima uomo e poi alpinista.

Con questa idea in testa Enzo chiese a ciascuno dei suoi amici legarsi a lui per aprire una via nuova, offrendo loro la possibilità di toccare il cielo con un dito, dando modo a tutti di avvicinarsi a quelle sensazioni che lui stesso aveva provato. Se all'inizio cambiava i compagni perché questi spaventati dal suo modo di arrampicare non ci stavano più, ora li cambiava perché voleva dare a tutti qualcosa di se stesso.

Io sono ricordato perché la Scotoni (via dei Fachiri ndr) è stata l’ultima via aperta da Enzo ma, se fosse ancora vivo, sarei uno dei tantissimi portati da Enzo su una via. Amico di tutti non privilegiava nessuno. Quando un dirigente della sua sezione gli chiese: Enzo, perché arrampichi poco con i rocciatori della nostra sezione? Risposta fu: Loro, pur amati forse più degli altri, non sono il mondo.

Un cambiamento profondo, inesplicabile. Uscì cambiato, non era più scontroso, ombroso ma aperto, luminoso, cordiale. Non riuscivamo a riconoscerlo, non trovammo una spiegazione ma ne fummo felici. Se arriva il bene le domande scompaiono; se il bene si allontana le domande ritornano. La risposta è che Enzo ha usato l’alpinista per diventare uomo. Nessuno aveva pensato a questa possibilità. Anzi i cosidetti famosi si sentono predestinati, perdono l’umanità senza la quale non sarebbero arrivati ad essere ciò che sono diventati.

Per evidenziare il suo cambiamento farò due esempi presi in due momenti diversi. Prima: Solleder alla Civetta: ore 5 del mattino, fa molto freddo. Enzo dice al compagno: Se attacchiamo, io indietro non torno. Attaccano, si alternano al comando della cordata. Arrivano sotto la lunga serie dei camini terminali: sono ricoperti di vetrato. Il compagno è sgomento. Enzo gli ripete: Io non torno indietro. Parte, chiodo a punta in una mano, martello nell’altra e avanti, veloce come un gatto, fino in vetta.
Dopo: Scotoni, via nuova d’inverno. Poco prima dell’attacco il compagno scivola su un lastrone ghiacciato, si ferisce alle mani. Enzo guarda le mani e dice: Andiamo via, ritorneremo.

La spiegazione è questa: Enzo è passato da comportamenti dettati da una profonda e inflessibile convinzione personale, a comportamenti dettati da una generosa, altruistica responsabilità.

Così si esprimeva nel suo ultimo articolo: Se altri, arrampicando con una diversa cognizione, riescono ad avere la stessa mia felicità dalla montagna, per me non possono essere altro che amici che vanno alla ricerca del mio stesso fine, anche se in modo diverso.

La sua lezione finisce quella domenica 18 giugno 1972 in Civetta. Inaspettata, improvvisa, simile a tutte le sue decisioni, prese per mettersi alla prova mentre noi, attoniti e stupidi, imparavamo a crescere dentro, a prendere quei gradi non previsti dalla scala Welzenbach, né dalle attuali scale aperte. Come ogni lezione sta al singolo decidere se prenderla e svilupparla o lasciarla cadere.

Se hai avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto, fai ancora una cosa per me. Togli il suo nome, togli le vie che sono state citate, se ciò che resta è attribuibile a qualsiasi altro alpinista, cestina pure questa mail. Se invece la cosa non funziona vorrà dire che ti ho raccontato qualcosa di Enzo Cozzolino."

di Flavio Ghio




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