Cuore e muscoli: Monte Bianco a piedi e pedali
Da Padova alla cima del Monte Bianco, un viaggio iniziato in bicicletta e culminato sulla vetta della montagna simbolo dell'alpinismo, una piccola grande avventura vissuta con la lentezza giusta per un'esperienza che, a distanza di tre estati, è ancora nella memoria dei giovani protagonisti: Giovanni Zaccaria, Claudio Gavagnin, Giuseppe Frizziero, Francesco Facco. Il racconto di Giovanni Zaccaria.
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Alba quasi in cima al Monte Bianco
archivio G. Zaccaria
Le idee pazze, stravaganti o geniali, spesso nascono per caso, quando si è lontani dalla montagna, magari seduti ad un tavolo, tra birre e risate. Ma soprattutto, nascono quando la compagnia è quella giusta. Non ci si ricorda neanche bene chi l’abbia detto: “Quest’estate... andiamo a scoprire il Monte Bianco!”. E qualcun altro avrà aggiunto: “Sì, però... ci andiamo in bicicletta!”. Non ci si pensa più, l’idea esiste, è abbastanza pazza, e al momento non serve altro.
Ai primi di agosto ci si incontra a Padova, con Claudio “Gava”, Beppe e Francesco, siamo appena tornati da campi scout ed altre avventure, non abbiamo programmi, solo sognanti idee da declinare finalmente al presente. Le previsioni meteo sono criptiche tendenti al variabile, ma lasciano spazio all’azione. Ci diamo un giorno e mezzo di tempo per raccimolare il materiale essenziale, improvvisare un carico in equilibrio su due ruote sottili, e fotocopiare un atlante del Nord Italia su svariati fogli A4. Non sappiamo quanto ci metteremo, dove dormiremo e che cosa vivremo, ma è per questo che usciamo di casa.
La partenza è di quelle di chi non ha fretta: tre di pomeriggio, Prato della Valle. Francesco ci accompagna per i primi chilometri e ci dà l’arrivederci a Courmayeur: altro lo aspetta per i prossimi giorni, ma il Monte Bianco chiama anche lui. Prendiamo confidenza con il carico instabile, i bastoncini di Beppe sono issati buffamente a “x” come pali da bandiera, mentre la sua lunga piccozza è un rostro pericoloso per le auto che osano avvicinarsi troppo. Dopo pochi chilometri il mio portapacchi si rivela ballerino, ma Beppe fa una riparazione artigianale da manuale, impeccabile anche oggi ad anni di distanza. Spingiamo sui pedali fino al Lago di Garda e mangiamo un gelato nel movimento serale di turisti stranieri. Poi cerchiamo una riva nascosta, una pasta, ed un bagno propiziatorio nel lago. Ci basta poco: dell’alcool per cucinare e due alberi per dormire. Claudio ed io testiamo le amache, mentre Beppe distende sotto lo stuoino: in caso di pioggia, con un telo sopra la testa diventiamo un tattico condominio a tre piani.
Siamo leggeri, un po' fragili, ma versatili e veloci, felici di non aver nulla da fare se non pedalare. La pianura padana ci scorre sotto i pedali, e solo l’asfalto infuocato dal sole ci ferma per qualche ora a metà giornata. Mentre il sole batte ancora sulla facciata del Duomo di Milano, scendiamo dalle bici al centro della piazza, soddisfatti di noi come in un sogno vivo. Ci sembra impossibile essere partiti da Padova solo il giorno prima. Al tramonto ci allontaniamo dalla città, il buio e i ponti sul Ticino ci nascondono al mondo, ma non alle stelle.
Il terzo giorno, tra le risaie, iniziamo a muoverci verso le montagne, gigantesco sfondo fisso e imperturbabile. Comincia la salita, ed il percorso non si misura più con il solo contachilomentri, ma con lo spaziare dello sguardo giù dalle vallate, e sui costoni delle montagne. Un’unica pausa dal meccanico costringe Beppe ad un cambio di copertone, ma la fortuna ed il bel tempo ci assistono. La Valle d’Aosta ci accoglie facendosi desiderare e sentire sulle gambe, la velocità media cala drasticamente. La sera, prima di cercare riposo sulla riva della Dora Baltea, giriamo per il centro di Aosta trascinando sui ciottoli le nostre biciclette, osservando persone e vetrine, probabilmente a nostra volta curiosamente osservati per i nostri strani carichi.
Le previsioni non sono male, ma migliorano ancor di più qualche giorno dopo: decidiamo quindi di temporeggiare... ma non per questo ci fermiamo! La mattina dopo risaliamo faticosamente la Valsavaranche, e poi a piedi, ignorando le urla delle gambe, fino al Rifugio Vittorio Emanuele. Ci troviamo in mezzo ad alpinisti, persone che magari parlano una lingua diversa, ma condividono simili emozioni. Ci fa strano sentirci così in compagnia, avere un letto su cui dormire, dopo giorni passati con estranei, a nasconderci dalla civiltà. Il giorno dopo siamo in vetta, soddisfatti del nostro primo quattromila. Che Gran Paradiso! Ci gustiamo una birra al rifugio per festeggiare, entusiasti ridiamo pensando allo sforzo che ancora ci aspetta. Lo stesso giorno infatti torniamo alle biciclette, scivoliamo veloci fino ad Aosta, e, ormai all’imbrunire, arranchiamo per l’ultima salita verso Courmayeur, dove Francesco e la sua tenda ci aspettano. Sentiamo il nostro corpo cadere a pezzi, ma la nuova compagnia e l’avvicinarci alla nostra meta finale ci infondono coraggio.
Dormire in amaca a Courmayeur non è proprio confortevole come sulle rive del Lago di Garda, ma ci svegliamo lo stesso di buon umore, perchè è un giorno di riposo. Mentre sistemiamo il materiale e facciamo scorta di cibo, ci massaggiamo continuamente i muscoli, sperando così di accorciare i tempi di recupero. Quando ci rimettiamo in sella verso la Val Veny, riceviamo egualmente un sonoro insulto dalle nostre gambe. Francesco è andato in avanscoperta in autobus, mentre noi ci fermiamo per un po’ al santuario di Notre Dame de Guérison. Il cuore percepisce il suo mistero, aiutato dagli occhi che saltano tra i crepacci della Brenva...
A La Visaille scendiamo dalle biciclette con la strana sensazione che non ci serviranno più..non per salire! Cerchiamo di mangiare il più possibile mentre montiamo tenda e amache, e togliamo dagli zaini camere d’aria di scorta, fil di ferro e pinze: da domani, saremo di nuovo dei normali alpinisti. Beppe conosce il suo fisico, non si fida della stanchezza e dubita di avere forze per la vetta del Bianco; decide ugualmente di arrivare con noi fino al Rifugio Gonella, immergersi tra il ghiaccio e le rocce di questo selvaggio angolo del Monte Bianco e, visto che non si sa mai, decidiamo lo stesso di portare due mezze corde. Dopo aver legato le biciclette, ci avviamo verso il ghiacciaio del Miage. Siamo increduli di fronte a tanta vastità, abituati come siamo alle nostre Dolomiti, nelle quali abbiamo imparato a sentirci a casa. Qua invece siamo piccoli, intimoriti dalla grandezza della natura. Ci sembra più austera, quasi ostile, o forse piena di pericoli che non riusciamo bene a comprendere.
Il Rifugio Gonella è nuovo, pulito e accogliente. Ci fa stare bene, ma, prima di entrare finalmente al caldo, cuciniamo la nostra zuppa sul fornello ad alcool, e osserviamo il sole tramontare sulle cime, mentre trascina verso il basso le ultime scariche di roccia e ghiaccio. Ho già sentito una frase che mi fa sempre sorridere: “Se non hai mai messo la sveglia prima di mezzanotte... non sei mai stato sul Monte Bianco”.
Il giorno successivo è per tutti e quattro la prima sveglia in Monte Bianco: Beppe fa colazione con noi, ci abbraccia con gli occhi e poi torna a dormire. Partiamo in tre, assieme a qualche altra cordata, e ci immergiamo nel buio del ghiacciaio. Seguiamo i segni lasciati dalle punte dei ramponi di chi ci precede, il nostro intuito e la mappa mentale che ci siamo fatti esaminando la cartina e leggendo qualche relazione qua e là. Siamo estremamente lucidi e concentrati sul nostro fisico, cerchiamo di rendere ogni movimento il più possibile efficiente. Quando ormai spunta la luce del nuovo giorno sbuchiamo oltre la cresta, dove normale italiana e francese si incontrano. Usciti dalla nostra solitudine, ci inseriamo in una fila di tanti piccoli esseri umani che salgono dal versante francese. Francesco decide di fermarsi alla Capanna Vallot. Tristi lo lasciamo entrare, rincuorati dalla presenza di molti altri alpinisti nei paraggi.
Siamo rimasti in due: io e Gava guardiamo l’orologio, e ci diamo un tempo limite per raggiungere la cima e non lasciare il nostro amico per troppo tempo in quota. Ci lasciamo alle spalle il timore di non farcela, la paura che il fisico ci dica improvvisamente “basta”, e saliamo il più velocemente possibile. Il fiato si fa pesante, ma le gambe reggono: un’ora dopo siamo sul pianoro sommitale, non ci sono più metri da salire. Guardiamo il profilo tondeggiante dell’orizzonte e intravediamo, nella nostra mente, Padova, il punto di partenza. Ci abbracciamo e l’emozione scoppia dentro. Un urlo animale esce da un punto imprecisato dell’addome: il cervello non c’entra, non può capire. Una lacrima congela negli occhi i raggi del sole ancora bassi, e subito comincia il tempo del ritorno. Ancora passi, fatica, pedalate... ma è discesa fino ad Aosta. Una pizza per festeggiare, e un treno per tornare senza accelerare alla civiltà.
Conteggiamo solamente a spanne la fatica di questa settimana: abbiamo macinato oltre 550 km e 8000 metri di dislivello, infiniti saliscendi e orizzonti: i numeri precisi non ci interessano. Facilmente invece ci rendiamo conto di quello che una simile avventura ci ha lasciato: abbiamo espulso tossine e respirato ogni aria del Nord Italia, abbiamo provato il limite del nostro corpo e la forza invisibile dell’amicizia, abbiamo drogato il nostro corpo di endorfine e la nostra mente con sorrisi e sogni.
Giovanni Zaccaria
Ai primi di agosto ci si incontra a Padova, con Claudio “Gava”, Beppe e Francesco, siamo appena tornati da campi scout ed altre avventure, non abbiamo programmi, solo sognanti idee da declinare finalmente al presente. Le previsioni meteo sono criptiche tendenti al variabile, ma lasciano spazio all’azione. Ci diamo un giorno e mezzo di tempo per raccimolare il materiale essenziale, improvvisare un carico in equilibrio su due ruote sottili, e fotocopiare un atlante del Nord Italia su svariati fogli A4. Non sappiamo quanto ci metteremo, dove dormiremo e che cosa vivremo, ma è per questo che usciamo di casa.
La partenza è di quelle di chi non ha fretta: tre di pomeriggio, Prato della Valle. Francesco ci accompagna per i primi chilometri e ci dà l’arrivederci a Courmayeur: altro lo aspetta per i prossimi giorni, ma il Monte Bianco chiama anche lui. Prendiamo confidenza con il carico instabile, i bastoncini di Beppe sono issati buffamente a “x” come pali da bandiera, mentre la sua lunga piccozza è un rostro pericoloso per le auto che osano avvicinarsi troppo. Dopo pochi chilometri il mio portapacchi si rivela ballerino, ma Beppe fa una riparazione artigianale da manuale, impeccabile anche oggi ad anni di distanza. Spingiamo sui pedali fino al Lago di Garda e mangiamo un gelato nel movimento serale di turisti stranieri. Poi cerchiamo una riva nascosta, una pasta, ed un bagno propiziatorio nel lago. Ci basta poco: dell’alcool per cucinare e due alberi per dormire. Claudio ed io testiamo le amache, mentre Beppe distende sotto lo stuoino: in caso di pioggia, con un telo sopra la testa diventiamo un tattico condominio a tre piani.
Siamo leggeri, un po' fragili, ma versatili e veloci, felici di non aver nulla da fare se non pedalare. La pianura padana ci scorre sotto i pedali, e solo l’asfalto infuocato dal sole ci ferma per qualche ora a metà giornata. Mentre il sole batte ancora sulla facciata del Duomo di Milano, scendiamo dalle bici al centro della piazza, soddisfatti di noi come in un sogno vivo. Ci sembra impossibile essere partiti da Padova solo il giorno prima. Al tramonto ci allontaniamo dalla città, il buio e i ponti sul Ticino ci nascondono al mondo, ma non alle stelle.
Il terzo giorno, tra le risaie, iniziamo a muoverci verso le montagne, gigantesco sfondo fisso e imperturbabile. Comincia la salita, ed il percorso non si misura più con il solo contachilomentri, ma con lo spaziare dello sguardo giù dalle vallate, e sui costoni delle montagne. Un’unica pausa dal meccanico costringe Beppe ad un cambio di copertone, ma la fortuna ed il bel tempo ci assistono. La Valle d’Aosta ci accoglie facendosi desiderare e sentire sulle gambe, la velocità media cala drasticamente. La sera, prima di cercare riposo sulla riva della Dora Baltea, giriamo per il centro di Aosta trascinando sui ciottoli le nostre biciclette, osservando persone e vetrine, probabilmente a nostra volta curiosamente osservati per i nostri strani carichi.
Le previsioni non sono male, ma migliorano ancor di più qualche giorno dopo: decidiamo quindi di temporeggiare... ma non per questo ci fermiamo! La mattina dopo risaliamo faticosamente la Valsavaranche, e poi a piedi, ignorando le urla delle gambe, fino al Rifugio Vittorio Emanuele. Ci troviamo in mezzo ad alpinisti, persone che magari parlano una lingua diversa, ma condividono simili emozioni. Ci fa strano sentirci così in compagnia, avere un letto su cui dormire, dopo giorni passati con estranei, a nasconderci dalla civiltà. Il giorno dopo siamo in vetta, soddisfatti del nostro primo quattromila. Che Gran Paradiso! Ci gustiamo una birra al rifugio per festeggiare, entusiasti ridiamo pensando allo sforzo che ancora ci aspetta. Lo stesso giorno infatti torniamo alle biciclette, scivoliamo veloci fino ad Aosta, e, ormai all’imbrunire, arranchiamo per l’ultima salita verso Courmayeur, dove Francesco e la sua tenda ci aspettano. Sentiamo il nostro corpo cadere a pezzi, ma la nuova compagnia e l’avvicinarci alla nostra meta finale ci infondono coraggio.
Dormire in amaca a Courmayeur non è proprio confortevole come sulle rive del Lago di Garda, ma ci svegliamo lo stesso di buon umore, perchè è un giorno di riposo. Mentre sistemiamo il materiale e facciamo scorta di cibo, ci massaggiamo continuamente i muscoli, sperando così di accorciare i tempi di recupero. Quando ci rimettiamo in sella verso la Val Veny, riceviamo egualmente un sonoro insulto dalle nostre gambe. Francesco è andato in avanscoperta in autobus, mentre noi ci fermiamo per un po’ al santuario di Notre Dame de Guérison. Il cuore percepisce il suo mistero, aiutato dagli occhi che saltano tra i crepacci della Brenva...
A La Visaille scendiamo dalle biciclette con la strana sensazione che non ci serviranno più..non per salire! Cerchiamo di mangiare il più possibile mentre montiamo tenda e amache, e togliamo dagli zaini camere d’aria di scorta, fil di ferro e pinze: da domani, saremo di nuovo dei normali alpinisti. Beppe conosce il suo fisico, non si fida della stanchezza e dubita di avere forze per la vetta del Bianco; decide ugualmente di arrivare con noi fino al Rifugio Gonella, immergersi tra il ghiaccio e le rocce di questo selvaggio angolo del Monte Bianco e, visto che non si sa mai, decidiamo lo stesso di portare due mezze corde. Dopo aver legato le biciclette, ci avviamo verso il ghiacciaio del Miage. Siamo increduli di fronte a tanta vastità, abituati come siamo alle nostre Dolomiti, nelle quali abbiamo imparato a sentirci a casa. Qua invece siamo piccoli, intimoriti dalla grandezza della natura. Ci sembra più austera, quasi ostile, o forse piena di pericoli che non riusciamo bene a comprendere.
Il Rifugio Gonella è nuovo, pulito e accogliente. Ci fa stare bene, ma, prima di entrare finalmente al caldo, cuciniamo la nostra zuppa sul fornello ad alcool, e osserviamo il sole tramontare sulle cime, mentre trascina verso il basso le ultime scariche di roccia e ghiaccio. Ho già sentito una frase che mi fa sempre sorridere: “Se non hai mai messo la sveglia prima di mezzanotte... non sei mai stato sul Monte Bianco”.
Il giorno successivo è per tutti e quattro la prima sveglia in Monte Bianco: Beppe fa colazione con noi, ci abbraccia con gli occhi e poi torna a dormire. Partiamo in tre, assieme a qualche altra cordata, e ci immergiamo nel buio del ghiacciaio. Seguiamo i segni lasciati dalle punte dei ramponi di chi ci precede, il nostro intuito e la mappa mentale che ci siamo fatti esaminando la cartina e leggendo qualche relazione qua e là. Siamo estremamente lucidi e concentrati sul nostro fisico, cerchiamo di rendere ogni movimento il più possibile efficiente. Quando ormai spunta la luce del nuovo giorno sbuchiamo oltre la cresta, dove normale italiana e francese si incontrano. Usciti dalla nostra solitudine, ci inseriamo in una fila di tanti piccoli esseri umani che salgono dal versante francese. Francesco decide di fermarsi alla Capanna Vallot. Tristi lo lasciamo entrare, rincuorati dalla presenza di molti altri alpinisti nei paraggi.
Siamo rimasti in due: io e Gava guardiamo l’orologio, e ci diamo un tempo limite per raggiungere la cima e non lasciare il nostro amico per troppo tempo in quota. Ci lasciamo alle spalle il timore di non farcela, la paura che il fisico ci dica improvvisamente “basta”, e saliamo il più velocemente possibile. Il fiato si fa pesante, ma le gambe reggono: un’ora dopo siamo sul pianoro sommitale, non ci sono più metri da salire. Guardiamo il profilo tondeggiante dell’orizzonte e intravediamo, nella nostra mente, Padova, il punto di partenza. Ci abbracciamo e l’emozione scoppia dentro. Un urlo animale esce da un punto imprecisato dell’addome: il cervello non c’entra, non può capire. Una lacrima congela negli occhi i raggi del sole ancora bassi, e subito comincia il tempo del ritorno. Ancora passi, fatica, pedalate... ma è discesa fino ad Aosta. Una pizza per festeggiare, e un treno per tornare senza accelerare alla civiltà.
Conteggiamo solamente a spanne la fatica di questa settimana: abbiamo macinato oltre 550 km e 8000 metri di dislivello, infiniti saliscendi e orizzonti: i numeri precisi non ci interessano. Facilmente invece ci rendiamo conto di quello che una simile avventura ci ha lasciato: abbiamo espulso tossine e respirato ogni aria del Nord Italia, abbiamo provato il limite del nostro corpo e la forza invisibile dell’amicizia, abbiamo drogato il nostro corpo di endorfine e la nostra mente con sorrisi e sogni.
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