Alpinismo: l'Aiguille de l’Eveque e i segreti del Monte Bianco
Elio Bonfanti e Luca Signorelli raccontano la storia alpinistica dell'Aiguille de l’Eveque. L'enorme spallone delle Grandes Jorasses che precipita per più di 1500 metri sulla Val Ferret e racchiude storie di avventure ed esplorazioni semisconosciute (tra queste quelle dell'inglese Tony Penning) in uno degli angoli più selvaggi e affascinati del versante italiano del Monte Bianco.
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Aiguille de l’Eveque con le vie aperte da Tony Penning, insieme a vari compagni, dal 1990 al 2009.
arch. E. Bonfanti
L'antefatto. Quando si giunge nei pressi di Courmayeur il Monte bianco appare all’improvviso in tutta la sua maestosità. I Piloni, la Noire, il Dente del gigante, poi d’infilata la cresta di Rochefort sino a spaziare con lo sguardo verso le Grandes Jorasses. Che spettacolo! Questo versante è veramente bello. Bello da vedere e bello da scalare. In ognuno dei bacini affacciati a guisa di balcone sul fondovalle esistono vie di arrampicata di ogni tipo e per ogni gusto. Negli ultimi anni poi, anche le pareti poste più in basso, hanno visto nascere numerosi itinerari e l’avvento degli spit ha permesso di salire, anche le numerose e ripide placconate che incombono sulla val Ferret.
Anche se la più parte degli itinerari non risulta essere censita, sono veramente tanti gli appassionati che tra le pieghe della roccia hanno trovato lo spazio per lasciare la loro firma, tanto, che oggi diventa difficile trovare il famoso “ Spazio bianco sulla mappa”. Io, pensavo di averlo finalmente trovato sull'Aiguille de l’Eveque. Una parete in un angolo selvaggio e straordinariamente bello della Val Ferret, proprio al cospetto della grande parete Est Grandes Jorasses. Una grande parete, difesa ad est da un ghiacciaio quasi invalicabile e a sud da uno zoccolo alto quasi quattrocento metri. Raccolto il maggior numero di informazioni possibili, questa parete mi risultava fosse stata salita dai soli Gabriele Boccalatte e Ninì Pietrasanta per cui credevo di aver fatto bingo e di aver trovato il terreno ideale dove trascorrere una lunga serie di fine settimana.
Via si parte! Ma la strategia che avevamo stabilito a casa già sullo zoccolo (che avevo sottostimato ) subisce una brusca battuta d’arresto ed il cambio di programma fa nascere un’inaspettata via nuova di nove lunghezze che abbiamo chiamato “La Memoire du Glacier”, in quanto percorre le levigate placche sotto il fronte del ghiacciaio di Freboudze. Beh! poco male, anzi meglio… ora si arriva agevolmente sotto la parete che mi interessava, ed il binocolo si scatena, ogni anfratto, ogni fessura e ogni sperone vengono controllati minuziosamente per trovare una linea, “La linea”, che più mi piace... Tanto, penso, qui è tutto vergine!
Un colpo di telefono ad un amico (Luca Maspes) il quale molto saggiamente mi dice: ok ci sto, ma prima chiedo lumi ad un amico (Luca Signorelli), per sapere se ha notizie di prima mano sul luogo. Rimango leggermente turbato dall’idea che qualcun altro possa essere al corrente del progetto, per cui pur abbozzando, non sono entusiasta dell’idea dell’amico guida; ma passa un solo giorno e grazie a lui scopro che sulla “mia” parete ci sono già almeno 6 vie aperte perlopiù da Tony Penning. Speravo che si fosse fermato dall’altro lato dell’Aiguille de l’Eveque e invece no questo accidenti di Inglese dal 1998 in avanti, trovando un percorso di salita dello zoccolo sufficientemente agevole, ha fatto praticamente “Tabula rasa“ senza lasciare nemmeno una briciola per noi.
Pur non conoscendolo chiamo anch’io Luca Signorelli per saperne di più, ma soprattutto per convincerlo che si sbagliava, che non parlavamo della stessa parete e che, anche se così non fosse, le vie nuove erano al massimo una…!. Invece no, aveva ragione lui. Con un'impietosa fotografia mi conferma quanto mi sta dicendo e poi, come aprendo un vaso di Pandora, in una mezz’oretta mi mette al corrente di tutta una serie di fatti che, pur frequentando il Bianco solo… da trent’ anni, ignoravo completamente. Quindi visto che c’ero… chiedergli di buttare giù due righe, per far conoscere a tutti i segreti di questo angolo sul versante Italiano del Monte Bianco, è stata una conseguenza inevitabile.
Elio Bonfanti
Storia dell'Eveque di Luca Signorelli
Come la maggioranza delle montagne che si trovano al di sotto della linea glaciale nei due versanti del Bianco, l'Eveque, un enorme spallone delle Jorasses che precipita per più di 1500 metri sulla Val Ferret, formando la parte inferiore della cresta di Tronchey, ben prima di essere obiettivo alpinistico è stata frequentata da cacciatori e cercatori di cristalli. Più i secondi che i primi,l'intera zona infatti è stata per anni famosa per la qualità dei suoi quarzi. Ma mentre la parte alta delle cresta di Tronchey vede un succedersi di tentativi fra la fine degli anni '20 e il 1936 (quando la guida cormaiorina Eliseo Croux soffia la prima salita a contendenti del calibro di Boccalatte e Gervasutti), la parte bassa viene in pratica ignorata.
Nel 1936, forse cercando una via di accesso alla cresta di Tronchey diversa da quella che oggi costituisce l’accesso al Bivacco Jachia, Gabriele Boccalatte sale per la prima volta il versante Freboudze, accompagnato da Ninì Pietrasanta (sua compagna di vita e di montagne), da Alfredo Castelli e Lorenzo Ronco. Boccalatte nota che la via non è particolarmente difficile, ma si svolge su un versante piuttosto rotto, e il lungo giro sul ghiacciaio di Freboudze non vale la breve scalata all’Eveque. Passeranno altri 50 anni prima che qualcuno guardi di nuovo all’Eveque da questo lato cercando nuove vie di salita.
Nel 1940, ed in circostanze singolari, anche il colossale versante SE, che domina Lavachey con un immenso salto, riceve la sua prima. Emanuele Andreis, accademico del CAI e presidente della sezione di Torino dei CAI, si trova in Val Ferret nella qualità di comandante del settore NE del cosiddetto “fronte del Monte Bianco”, il dispiegamento bellico italiano che – in teoria – dovrebbe fungere da supporto all’attacco contro la Francia del 10 giugno. Per inciso, gli altri due segmenti del settore – quello SW dal col de La Seigne al Bianco, e quello dal Bianco al Colle del Gigante – sono comandati rispettivamente da Giusto Gervasutti e Renato Chabod, nomi famosissimi dell’alpinismo italiano anteguerra. Poi arriva l’armistizio così rimane molto tempo per arrampicare, e Andreis ne approfitta per salire (assieme alle guide/commilitoni Frachey e Thomasset) il paretone dell’Eveque, nello sbalorditivo tempo di 7 ore e mezza. Nel 1940 la gente ha altro a cui pensare che la cronaca alpinistica, e la salita passa quasi del tutto inosservata - fatto condiviso con la ben più importante via Gervasutti alla Est delle Jorasses, aperta nella più totale indifferenza nel 1942.
Andreis muore sul Dente del Gigante nel 1964 assieme al figlio (in circostanze assai tragiche) e della sua via si riparla solo nel 1967, quando la relazione viene pubblicata nel volume II° della guida del Monte Bianco di Buscaini, Chabod, Grivel e Saglio, una delle “guide grigie” del CAI più vendute di sempre. La zona non è mai stata particolarmente di moda (le ripetizioni da questo lato delle Jorasses si contano sulle dita di una mano), ma la via solleva qualche curiosità. I ripetitori però devono constatare con un certo sbalordimento che è assai più dura, e soprattutto assai più lunga di quanto indicato nella relazione Andreis. E non è solo questione di difficoltà arrampicatorie (che pure nella parte alta ci sono). L’accesso avviene attraverso un dedalo di pericolosi prati verticali, inframezzati da barriere rocciose solidissime e (senza trapano) difficilmente superabili. La scarsa notorietà dell’obiettivo non avrebbe giustificato una bugia, per cui la via Andreis può essere tranquillamente considerata uno dei tanti casi di un piccolo (e dimenticato) exploit fatto da alpinisti poco noti.
Passano altri anni di silenzio prima che Ugo Manera, l’alpinista torinese che ha esplorato in lungo e in largo questa parte del Bianco, punti gli occhi sull’Eveque, assieme a Franco Ribetti (ritornato all’alpinismo dopo un terribile incidente sull’Uja di Mondrone). “Pan e Pera” (come è soprannominato Ugo) decide di tentare una salita diretta al versante Lavachey, evitando la deviazione sulla cresta SSE. Il risultato è una linea assai diretta e ingaggiata, ma resa molto discontinua dal suddetto labirintico accesso. La roccia si rivela però ottima. In effetti l’Eveque nasconde, nella parte inferiore del versante sud-est, un segreto: alcuni pilastri di roccia straordinariamente buona, perfino per lo standard Monte Bianco.
La qualità del “materiale” non sfugge ad alcune guide valdostane, fra cui spiccano Rudy Buccella, Valerio Folco ed Ezio Marlier, che alla fine degli anni '90 firmano, su quelli che diventano i “Pilastri Dell’Eveque”, una serie di linee di notevole difficoltà assieme a vari compagni di cordata. Fra queste vale la pena di citare "Straordinaria”, una via veramente bella e difficile ed Edelweiss. L’accesso da Lavachey è elementare (anche se faticoso), ma queste vie non hanno la frequenza che forse meriterebbero, probabilmente per la difficoltà relativamente elevata e la spittatura impegnativa.
Torniamo però agli anni ’80. L’interesse per qualsiasi forma di alpinismo esplorativo o di avventura è, almeno per il gruppo del Bianco, ai minimi storici. Cosicché gli obiettivi delle nuove generazioni di arrampicatori sono diventate le Aiguilles di Chamonix ed i Satelliti del Tacul. Le zone del lato italiano dove sia possibile importare la visione di “apertura come prodotto” resa popolare da Michel Piola sono, con l’eccezione del Triolet, veramente poche e l’Eveque non è sicuramente una di queste. Per di più, è facile leggere sulle riviste dell’epoca, sia italiane che francesi, giudizi piuttosto sommari (e spesso male informati) sulle vie e sulla qualità della roccia del versante italiano del Bianco. Ma mentre in Francia ci si guarda bene dallo smitizzare le grandi vie di roccia del versante di Chamonix, in Italia nasce un gioco al massacro che temporaneamente degrada a “relitti del passato” aree che fino ad una decina di anni prima erano nei sogni di tutti gli alpinisti. L’arrampicata-avventura viene vista con sospetto, quasi come un retaggio di un alpinismo classico che si vuole buttare via a tutti i costi.
Non è quindi un caso che gli unici esploratori dei versanti dimenticati e non spittabili del Bianco (con l’eccezione di Manlio Motto nel Triolet) vengano da oltre Manica. La scena Britannica di quegli anni è assai più libera e spregiudicata della nostra (parlo sempre di nord-ovest Italiano), meno incatenata da ideologismi e mode, e sostenuta da una robusta dose di sana selettività. Aiutati dal rifiuto dello spit selvaggio, gli alpinisti inglesi della generazione degli anni ’80 girano il mondo alla ricerca di bersagli sempre più remoti, avventurosi e spesso oscuri. Chi non può andare in Himalaya viene nelle Alpi, e chi non trova più stimoli a Chamonix, viene a Courmayeur. E’ questo il caso di Tony Penning e Pete Cresswell, due arrampicatori dello Yorkshire. Si sono conosciuti negli anni '70 mentre facevano parte del soccorso della RAF. Sono i classici “vagabondi della montagna”: raramente interessati a ripetere le vie altrui, pur se prestigiose, e sempre a caccia di prime; una loro via sulla Ovest della Blaitere è diventata un piccolo classico. Loro però non si sentono – fortunatamente – obbligati ad aprire a tutti i costi vie popolari, e puntano gli occhi sul selvaggio versante italiano. Mentre stanno aprendo una via sulla parete Ovest del Greuvetta, notano dall’altra parte del vallone del Freboudze la parete NE dell’Eveque. Una veloce consultazione delle guide disponibili rivela che è una parete vergine; Tony e Pete decidono che quello sarà un loro futuro obbiettivo.
Nel 1989 tornano nel Freboudze. La prima difficoltà è arrivare alla parete, difesa da un rispettabile zoccolo roccioso (che sul lato Lavachey forma una curiosa cascata che, per via del vento, non tocca quasi mai terra). Trovano – fortuitamente – una via di accesso, bivaccano sul plateau sommitale dello zoccolo, e il giorno dopo affrontano la salita. La via che vogliono aprire taglia la parete in due seguendo una teoria di diedri, fessure e qualche placca, ed è proteggibile con nuts e qualche chiodo. In alto la parete si abbatte, ma Pete e Tony vogliono arrivare in cima allo spallone che domina la parete quotato 3019m sulle cartine. Si slegano e procedono separati. Poco sotto la cima, Tony si accorge che il suo amico non lo segue più. Preoccupato, ridiscende con una serie di doppie. Alla base della parete, trova il corpo di Pete, che probabilmente è scivolato sulle rocce viscide della cima. Cresswell viene seppellito a Courmayeur – per una coincidenza, proprio di fianco al torinese Paolo Armando, un altro grande irregolare dell’arrampicata, precipitato 20 anni prima sotto la cima del Greuvetta.
Nonostante la tragedia, nei quindici anni successivi Tony elegge il versante di Courmayeur a suo regolare domicilio alpinistico estivo. Ritorna nel 1990 e completa la via Cresswell. Accompagnato di volta in volta da una variegata troupe di compagni d’arrampicata, spesso molto più giovani di lui, apre circa 30 nuove vie, più di qualunque altro non-italiano su questo versante, principalmente (ma non esclusivamente) attorno alla Aiguille Noire (sulla parete sud ha aperto la sua via probabilmente più ripetuta, “Lost to Obsession”), e sul versante italiano del settore Rochefort-Jorasses.. E, nonostante la tragedia, torna e ritorna sull’Eveque. Apre due vie sul versante sud-est (l’ultima, “Ageing Gunslinger” è del 2009), una via sui giganteschi diedri a picco su Lavachey (“Sexy Beast”, una linea molto bella ma in alcuni punti disturbata dall’erba), e ben sei vie sulla Nord-Est, che per Tony & C diventa un vero e proprio laboratorio di arrampicata “clean” e avventurosa. Tony sostiene tuttora che la via migliore della parete è ancora la prima – la “via Cresswell”. Detto questo, va sicuramente citata “Power Of Love”, aperta nel 2003 con la sua attuale compagna di vita (e di scalate) Ali Taylor, una via non molto diretta che però ha dei passaggi di arrampicata veramente superbi, e meriterebbe maggiore interesse.
Luca Signorelli
Anche se la più parte degli itinerari non risulta essere censita, sono veramente tanti gli appassionati che tra le pieghe della roccia hanno trovato lo spazio per lasciare la loro firma, tanto, che oggi diventa difficile trovare il famoso “ Spazio bianco sulla mappa”. Io, pensavo di averlo finalmente trovato sull'Aiguille de l’Eveque. Una parete in un angolo selvaggio e straordinariamente bello della Val Ferret, proprio al cospetto della grande parete Est Grandes Jorasses. Una grande parete, difesa ad est da un ghiacciaio quasi invalicabile e a sud da uno zoccolo alto quasi quattrocento metri. Raccolto il maggior numero di informazioni possibili, questa parete mi risultava fosse stata salita dai soli Gabriele Boccalatte e Ninì Pietrasanta per cui credevo di aver fatto bingo e di aver trovato il terreno ideale dove trascorrere una lunga serie di fine settimana.
Via si parte! Ma la strategia che avevamo stabilito a casa già sullo zoccolo (che avevo sottostimato ) subisce una brusca battuta d’arresto ed il cambio di programma fa nascere un’inaspettata via nuova di nove lunghezze che abbiamo chiamato “La Memoire du Glacier”, in quanto percorre le levigate placche sotto il fronte del ghiacciaio di Freboudze. Beh! poco male, anzi meglio… ora si arriva agevolmente sotto la parete che mi interessava, ed il binocolo si scatena, ogni anfratto, ogni fessura e ogni sperone vengono controllati minuziosamente per trovare una linea, “La linea”, che più mi piace... Tanto, penso, qui è tutto vergine!
Un colpo di telefono ad un amico (Luca Maspes) il quale molto saggiamente mi dice: ok ci sto, ma prima chiedo lumi ad un amico (Luca Signorelli), per sapere se ha notizie di prima mano sul luogo. Rimango leggermente turbato dall’idea che qualcun altro possa essere al corrente del progetto, per cui pur abbozzando, non sono entusiasta dell’idea dell’amico guida; ma passa un solo giorno e grazie a lui scopro che sulla “mia” parete ci sono già almeno 6 vie aperte perlopiù da Tony Penning. Speravo che si fosse fermato dall’altro lato dell’Aiguille de l’Eveque e invece no questo accidenti di Inglese dal 1998 in avanti, trovando un percorso di salita dello zoccolo sufficientemente agevole, ha fatto praticamente “Tabula rasa“ senza lasciare nemmeno una briciola per noi.
Pur non conoscendolo chiamo anch’io Luca Signorelli per saperne di più, ma soprattutto per convincerlo che si sbagliava, che non parlavamo della stessa parete e che, anche se così non fosse, le vie nuove erano al massimo una…!. Invece no, aveva ragione lui. Con un'impietosa fotografia mi conferma quanto mi sta dicendo e poi, come aprendo un vaso di Pandora, in una mezz’oretta mi mette al corrente di tutta una serie di fatti che, pur frequentando il Bianco solo… da trent’ anni, ignoravo completamente. Quindi visto che c’ero… chiedergli di buttare giù due righe, per far conoscere a tutti i segreti di questo angolo sul versante Italiano del Monte Bianco, è stata una conseguenza inevitabile.
Elio Bonfanti
Storia dell'Eveque di Luca Signorelli
Come la maggioranza delle montagne che si trovano al di sotto della linea glaciale nei due versanti del Bianco, l'Eveque, un enorme spallone delle Jorasses che precipita per più di 1500 metri sulla Val Ferret, formando la parte inferiore della cresta di Tronchey, ben prima di essere obiettivo alpinistico è stata frequentata da cacciatori e cercatori di cristalli. Più i secondi che i primi,l'intera zona infatti è stata per anni famosa per la qualità dei suoi quarzi. Ma mentre la parte alta delle cresta di Tronchey vede un succedersi di tentativi fra la fine degli anni '20 e il 1936 (quando la guida cormaiorina Eliseo Croux soffia la prima salita a contendenti del calibro di Boccalatte e Gervasutti), la parte bassa viene in pratica ignorata.
Nel 1936, forse cercando una via di accesso alla cresta di Tronchey diversa da quella che oggi costituisce l’accesso al Bivacco Jachia, Gabriele Boccalatte sale per la prima volta il versante Freboudze, accompagnato da Ninì Pietrasanta (sua compagna di vita e di montagne), da Alfredo Castelli e Lorenzo Ronco. Boccalatte nota che la via non è particolarmente difficile, ma si svolge su un versante piuttosto rotto, e il lungo giro sul ghiacciaio di Freboudze non vale la breve scalata all’Eveque. Passeranno altri 50 anni prima che qualcuno guardi di nuovo all’Eveque da questo lato cercando nuove vie di salita.
Nel 1940, ed in circostanze singolari, anche il colossale versante SE, che domina Lavachey con un immenso salto, riceve la sua prima. Emanuele Andreis, accademico del CAI e presidente della sezione di Torino dei CAI, si trova in Val Ferret nella qualità di comandante del settore NE del cosiddetto “fronte del Monte Bianco”, il dispiegamento bellico italiano che – in teoria – dovrebbe fungere da supporto all’attacco contro la Francia del 10 giugno. Per inciso, gli altri due segmenti del settore – quello SW dal col de La Seigne al Bianco, e quello dal Bianco al Colle del Gigante – sono comandati rispettivamente da Giusto Gervasutti e Renato Chabod, nomi famosissimi dell’alpinismo italiano anteguerra. Poi arriva l’armistizio così rimane molto tempo per arrampicare, e Andreis ne approfitta per salire (assieme alle guide/commilitoni Frachey e Thomasset) il paretone dell’Eveque, nello sbalorditivo tempo di 7 ore e mezza. Nel 1940 la gente ha altro a cui pensare che la cronaca alpinistica, e la salita passa quasi del tutto inosservata - fatto condiviso con la ben più importante via Gervasutti alla Est delle Jorasses, aperta nella più totale indifferenza nel 1942.
Andreis muore sul Dente del Gigante nel 1964 assieme al figlio (in circostanze assai tragiche) e della sua via si riparla solo nel 1967, quando la relazione viene pubblicata nel volume II° della guida del Monte Bianco di Buscaini, Chabod, Grivel e Saglio, una delle “guide grigie” del CAI più vendute di sempre. La zona non è mai stata particolarmente di moda (le ripetizioni da questo lato delle Jorasses si contano sulle dita di una mano), ma la via solleva qualche curiosità. I ripetitori però devono constatare con un certo sbalordimento che è assai più dura, e soprattutto assai più lunga di quanto indicato nella relazione Andreis. E non è solo questione di difficoltà arrampicatorie (che pure nella parte alta ci sono). L’accesso avviene attraverso un dedalo di pericolosi prati verticali, inframezzati da barriere rocciose solidissime e (senza trapano) difficilmente superabili. La scarsa notorietà dell’obiettivo non avrebbe giustificato una bugia, per cui la via Andreis può essere tranquillamente considerata uno dei tanti casi di un piccolo (e dimenticato) exploit fatto da alpinisti poco noti.
Passano altri anni di silenzio prima che Ugo Manera, l’alpinista torinese che ha esplorato in lungo e in largo questa parte del Bianco, punti gli occhi sull’Eveque, assieme a Franco Ribetti (ritornato all’alpinismo dopo un terribile incidente sull’Uja di Mondrone). “Pan e Pera” (come è soprannominato Ugo) decide di tentare una salita diretta al versante Lavachey, evitando la deviazione sulla cresta SSE. Il risultato è una linea assai diretta e ingaggiata, ma resa molto discontinua dal suddetto labirintico accesso. La roccia si rivela però ottima. In effetti l’Eveque nasconde, nella parte inferiore del versante sud-est, un segreto: alcuni pilastri di roccia straordinariamente buona, perfino per lo standard Monte Bianco.
La qualità del “materiale” non sfugge ad alcune guide valdostane, fra cui spiccano Rudy Buccella, Valerio Folco ed Ezio Marlier, che alla fine degli anni '90 firmano, su quelli che diventano i “Pilastri Dell’Eveque”, una serie di linee di notevole difficoltà assieme a vari compagni di cordata. Fra queste vale la pena di citare "Straordinaria”, una via veramente bella e difficile ed Edelweiss. L’accesso da Lavachey è elementare (anche se faticoso), ma queste vie non hanno la frequenza che forse meriterebbero, probabilmente per la difficoltà relativamente elevata e la spittatura impegnativa.
Torniamo però agli anni ’80. L’interesse per qualsiasi forma di alpinismo esplorativo o di avventura è, almeno per il gruppo del Bianco, ai minimi storici. Cosicché gli obiettivi delle nuove generazioni di arrampicatori sono diventate le Aiguilles di Chamonix ed i Satelliti del Tacul. Le zone del lato italiano dove sia possibile importare la visione di “apertura come prodotto” resa popolare da Michel Piola sono, con l’eccezione del Triolet, veramente poche e l’Eveque non è sicuramente una di queste. Per di più, è facile leggere sulle riviste dell’epoca, sia italiane che francesi, giudizi piuttosto sommari (e spesso male informati) sulle vie e sulla qualità della roccia del versante italiano del Bianco. Ma mentre in Francia ci si guarda bene dallo smitizzare le grandi vie di roccia del versante di Chamonix, in Italia nasce un gioco al massacro che temporaneamente degrada a “relitti del passato” aree che fino ad una decina di anni prima erano nei sogni di tutti gli alpinisti. L’arrampicata-avventura viene vista con sospetto, quasi come un retaggio di un alpinismo classico che si vuole buttare via a tutti i costi.
Non è quindi un caso che gli unici esploratori dei versanti dimenticati e non spittabili del Bianco (con l’eccezione di Manlio Motto nel Triolet) vengano da oltre Manica. La scena Britannica di quegli anni è assai più libera e spregiudicata della nostra (parlo sempre di nord-ovest Italiano), meno incatenata da ideologismi e mode, e sostenuta da una robusta dose di sana selettività. Aiutati dal rifiuto dello spit selvaggio, gli alpinisti inglesi della generazione degli anni ’80 girano il mondo alla ricerca di bersagli sempre più remoti, avventurosi e spesso oscuri. Chi non può andare in Himalaya viene nelle Alpi, e chi non trova più stimoli a Chamonix, viene a Courmayeur. E’ questo il caso di Tony Penning e Pete Cresswell, due arrampicatori dello Yorkshire. Si sono conosciuti negli anni '70 mentre facevano parte del soccorso della RAF. Sono i classici “vagabondi della montagna”: raramente interessati a ripetere le vie altrui, pur se prestigiose, e sempre a caccia di prime; una loro via sulla Ovest della Blaitere è diventata un piccolo classico. Loro però non si sentono – fortunatamente – obbligati ad aprire a tutti i costi vie popolari, e puntano gli occhi sul selvaggio versante italiano. Mentre stanno aprendo una via sulla parete Ovest del Greuvetta, notano dall’altra parte del vallone del Freboudze la parete NE dell’Eveque. Una veloce consultazione delle guide disponibili rivela che è una parete vergine; Tony e Pete decidono che quello sarà un loro futuro obbiettivo.
Nel 1989 tornano nel Freboudze. La prima difficoltà è arrivare alla parete, difesa da un rispettabile zoccolo roccioso (che sul lato Lavachey forma una curiosa cascata che, per via del vento, non tocca quasi mai terra). Trovano – fortuitamente – una via di accesso, bivaccano sul plateau sommitale dello zoccolo, e il giorno dopo affrontano la salita. La via che vogliono aprire taglia la parete in due seguendo una teoria di diedri, fessure e qualche placca, ed è proteggibile con nuts e qualche chiodo. In alto la parete si abbatte, ma Pete e Tony vogliono arrivare in cima allo spallone che domina la parete quotato 3019m sulle cartine. Si slegano e procedono separati. Poco sotto la cima, Tony si accorge che il suo amico non lo segue più. Preoccupato, ridiscende con una serie di doppie. Alla base della parete, trova il corpo di Pete, che probabilmente è scivolato sulle rocce viscide della cima. Cresswell viene seppellito a Courmayeur – per una coincidenza, proprio di fianco al torinese Paolo Armando, un altro grande irregolare dell’arrampicata, precipitato 20 anni prima sotto la cima del Greuvetta.
Nonostante la tragedia, nei quindici anni successivi Tony elegge il versante di Courmayeur a suo regolare domicilio alpinistico estivo. Ritorna nel 1990 e completa la via Cresswell. Accompagnato di volta in volta da una variegata troupe di compagni d’arrampicata, spesso molto più giovani di lui, apre circa 30 nuove vie, più di qualunque altro non-italiano su questo versante, principalmente (ma non esclusivamente) attorno alla Aiguille Noire (sulla parete sud ha aperto la sua via probabilmente più ripetuta, “Lost to Obsession”), e sul versante italiano del settore Rochefort-Jorasses.. E, nonostante la tragedia, torna e ritorna sull’Eveque. Apre due vie sul versante sud-est (l’ultima, “Ageing Gunslinger” è del 2009), una via sui giganteschi diedri a picco su Lavachey (“Sexy Beast”, una linea molto bella ma in alcuni punti disturbata dall’erba), e ben sei vie sulla Nord-Est, che per Tony & C diventa un vero e proprio laboratorio di arrampicata “clean” e avventurosa. Tony sostiene tuttora che la via migliore della parete è ancora la prima – la “via Cresswell”. Detto questo, va sicuramente citata “Power Of Love”, aperta nel 2003 con la sua attuale compagna di vita (e di scalate) Ali Taylor, una via non molto diretta che però ha dei passaggi di arrampicata veramente superbi, e meriterebbe maggiore interesse.
Luca Signorelli
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