A trent'anni dalla scomparsa di Gianni Calcagno. Di Camilla Calcagno, figlia di Gianni
Alcune persone nascono con una dote particolare, l’hanno dentro, non possono fare altro che lasciare che emerga dal subconscio e assecondarla.
Gianni Calcagno è nato per la montagna, già a cinque anni con il fratello gemello Lino si divertiva a salire un muretto a secco di circa otto metri della casa dove viveva, spinto chissà da quale impulso, a suo dire forse perché era una cosa proibita, forse per sfida, forse per curiosità di vedere cosa ci fosse al di là.
Dopo un breve approccio al mondo sottomarino si avvicina all’arrampicata sulle montagne dietro casa con il fratello Lino. E’ un "colpo di fulmine", le doti naturali e la notevole capacità maturata lo fanno diventare ben presto istruttore della Sezione Ligure del CAI.
In poco tempo gli orizzonti si ampliano: Alpi Occidentali, Dolomiti e il Monte Bianco diventano meta abituale dei fine settimana di Gianni e compagni, tra cui Lino è il più presente. Collezionano una dopo l’altra salite importanti: Parete Nord della Cima Grande di Lavaredo, Cresta Sud dell’Aiguille Noire de Peuterey, Via Mayor, Via de la Poire.
Una vera e propria galoppata contro il tempo: partenza appena dopo il lavoro il venerdì sera o la mattina presto del sabato, viaggio di quattro cinque ore verso Courmayeur con l’ansimante 500, salita al Rifugio Torino; poche ore di sonno, la scalata, e poi un precipitoso ritorno verso la civiltà per rientrare al lavoro, puntuali, il lunedì mattina.
Una sorta di filosofia "mordi e fuggi" riportata in seguito in Himalaya negli anni ’80, tempi rapidi e breve permanenza in quota evitano il logoramento fisico e mentale. È la prova che l’alpinismo, anche quello di alto livello, si può praticare in breve tempo e senza particolare acclimatamento.
La promozione nel gotha dell’alpinismo arriva nei primi giorni del 1968, quando con Alessandro Gogna e Paolo Armando compiono con tre alpinisti svizzeri la prima ascensione invernale della difficilissima "Via Cassin" alla Nord-Est del Badile, una lavagna di roccia, ghiaccio e misto di 900 metri, già fallita da numerose spedizioni di alto livello. È una vera impresa, sia alpinistica, sia d’intensa condivisione umana: due spedizioni si trovano contemporaneamente "all’attacco" della montagna e decidono di mettere da parte rivalità nazionalistiche, unire le loro forze e dopo tredici lunghi giorni di salita nel brutto tempo e a temperature estreme giungono in vetta.
Oltre all’attività in alta montagna Gianni si appassiona all’arrampicata libera; a pochi chilometri da casa ci sono pareti fantastiche di aspetto dolomitico: è Finale Ligure, allora ancora totalmente sconosciuta ai moderni arrampicatori. Il territorio, a due passi dal mare, è selvaggio, inesplorato e poco accessibile, il machete serve per farsi strada tra la vegetazione fitta e spinosa, ma la roccia è ottima e in pochi anni Gianni, Alessandro Grillo e compagni tracciano splendidi itinerari, dapprima seguendo le linee più facili poi, man mano che la tecnica si affina, sempre più complicati e di grande soddisfazione. Le leggerissime scarpette da arrampicata soppiantano ben presto i più pesanti e meno performanti scarponi di cuoio, è una rivoluzione!
I tempi sono maturi per spiccare il volo verso le alte quote, le salite extraeuropee prendono sempre più forma nei progetti di Gianni. Il suo modo di intendere l’alpinismo lo porta a cercare compagni di scalata al di fuori della cerchia ligure. In Val Sesia, al confine tra Piemonte e Valle d’Aosta, trova persone con cui stringe un’amicizia fraterna e che faranno parte di una squadra fortissima di alpinisti con cui nel 1984 conquisterà il suo primo Ottomila, il Broad Peak (8047m.).
In seguito fu contattato da una società di Bergamo, "Quota 8000", che si proponeva sia di scalare nell’arco di cinque anni le 14 montagne della terra che superano gli 8000 metri, che di sviluppare ricerche medico scientifiche, naturalistiche ed etnografiche, un progetto complesso e molto ambizioso.
La scelta non è facile, l’alpinismo che aveva svolto fino a quel momento era interamente costruito su idee ed esigenze del singolo o di un gruppo di amici, niente organizzazioni professionali, niente sponsor, non bisognava rendere conto a nessuno se non a se stessi e alle proprie emozioni. Per quegli anni è anche un nuovo modo di intendere l’alpinismo in Himalaya, non un singolo exploit, ma una serie di prove durissime come l’ascensione di più Ottomila in periodi di tempo molto ravvicinati.
L’occasione è davvero unica, bisogna accettare! Nel 1985 parte la prima spedizione, in quindici giorni Gianni e compagni salgono il Gasherbrum I (8068m.) e il Gasherbrum II (8035m.). Nel 1986 in soli tre giorni viene raggiunta la vetta del K2 (8611m.), un vero e proprio successo. Quello che finalmente trova Gianni è una squadra come l’ha sempre intesa, uomini del suo stesso calibro alpinistico, un gruppo con cui condividere quello che per tutti è molto di più di una passione, è un modo di essere, di vivere.
Nel 1987 sale il Nanga Parbat (8125m.), ultimo viaggio alpinistico con "Quota 8000" il cui progetto assume per Gianni connotati eccessivamente commerciali. Nel 1988 partecipa come capogruppo logistico ad una spedizione scientifica facente parte del progetto Everest-K2, nato sotto l’egida del CNR e diretta dal professor Ardito Desio. La meta è la valle Shaksgam in Cina, al fine di compiere la misurazione esatta dell’Everest e del K2.
Chiusa la parentesi di "Quota 8000" Gianni sente nuovamente il richiamo di un alpinismo più a sua misura, meno clamore mediatico e commerciale. La morte del suo compagno fraterno Tullio Vidoni segna ancora una volta il suo destino; come già dopo la scomparsa di Guido Machetto, si ritrova solo, senza qualcuno con cui condividere la passione della sua vita.
Rinunciare all’alpinismo? Improponibile, per chi vive di montagne, le scala, le fotografa in tutti i suoi aspetti più reconditi, ne scrive nei suoi libri, costruisce audiovisivi e film, le assapora in tutti i suoi aspetti. Gianni Calcagno senza la montagna non sarebbe più Gianni Calcagno.
A Genova ritrova la piena sintonia con un gruppo di giovani genovesi, Marco Schenone, Valter Savio, Marcello Giovale, Roberto Piombo, Stefano Molfino e con un toscano, Giustino Crescimbeni, amico di vecchia data e di innumerevoli avventure, con cui colleziona una dopo l’altra salite di livello tecnico estremo sulle Alpi Apuane e in Marittime. Lo spirito è sempre lo stesso: entusiasmo, voglia di avventura, libertà, insomma vita vissuta in totale pienezza d’animo. La passione è immutata e gli anni che avanzano non contano.
I ritmi sono sempre forsennati, lavoro intenso tutta la settimana e poi nel week end, rubando il tempo al sonno e agli affetti, via in montagna. L’alpinismo sempre come forma di libertà e non di lavoro.
L’Alaska nel 1992 segnerà la fine della grande avventura. Perderà la vita con lui nella scalata del Monte Denali Roberto Piombo, eccezionale compagno di scalate misconosciute e al limite dell’impossibile.
Gianni per volere dei familiari è ancora su quella montagna: una spedizione di amici Valsesiani nel 1994 lo ha riposto in un crepaccio, e il suo spirito continua a vagare sulle sue montagne come sicuramente era suo volere… ed era giusto che fosse così.
di Camilla Calcagno
Camilla, la figlia di Gianni, sta organizzando per ricordarlo la mostra fotografica intitolata "Salendo dal mare". Chi fosse interessato ad ospitarla la contatti all’indirizzo calcagno.camilla@gmail.com, sarà ben lieta di parlare con voi.
CONTRIBUITO DI FRANCESCO LEARDI, C.A.A.I. Gruppo Orientale
Andai via da Genova nel 1983 scegliendo un nuovo percorso di vita e allontanandomi dai personaggi che erano stati parte del mio mondo. Dal 1975 circa avevo iniziato ad arrampicare e Finale cominciava ad attrarre le mie smanie arrampicatorie.
Fu presentata la prima guida ad opera di Gianni Calcagno, Alessandro Grillo e Vittorio Simonetti e in una serata in un auditorium di Genova, non ricordo quale, insieme ai miei coetanei alle prime armi la acquistammo subito.
Metri su metri sulle rocce del finalese ci fecero crescere ed acquisire consapevolezze sulle possibilità di frequentare grandi pareti. Fu una palestra non solo di tecnica ma anche e soprattutto di vita. Gianni era il nostro "Guru" e il negozio Bagnara a Piccapietra, rione di Genova centro, dove lui lavorava, era come un confessionale.
Ultimamente ho deciso di raccogliere alcuni miei racconti e propongo questa piccola serie di aneddoti ai quali se ne aggiungerebbero altri se avessi scelto di scrivere un diario; purtroppo il tempo è passato e i ricordi si sono sbiaditi ma Gianni no, non scomparirà mai dalla nostra mente.
Forse riecheggia per le pareti di Finale ancora il suo "A ridicoli…!!!" Urlato a chi era in parete amico o "avversario" che fosse.
Alla sera il negozio "Bagnara Sport" a Piccapietra dove Gianni Calcagno lavorava era una succursale pomeridiana del C.A.I.
Ovviamente quando entravamo in negozio già le commesse ci dicevano "Gianni è giù!" ma naturalmente conoscevamo bene le due rampe di scale che portavano in basso da Lui.
Cercavamo anche, da giovani assatanati, di attaccare bottone con le commesse, dando la priorità alla loro avvenenza che non al barbone di Gianni, ma Lui molto gentilmente ci dissuadeva dicendo che ci saremmo portati a casa una bella "rogna".
Un bel giorno stavamo parlando nella "succursale C.A.I." quando entrò da una porta laterale del negozio un signore trafelato urlando che all’esterno alcune persone si erano prese a pistolettate. Gianni esordì inaspettatamente con la frase "sarà per le solite discussioni di parcheggio!"; ovviamente stemperò la tensione che aleggiava nel negozio e imparai da Gianni che dominare le situazioni era fondamentale e necessario per chi fa alpinismo di alto livello.
Inizialmente la porta con l’esterno rimase chiusa ma cautamente la aprii e constatai che effettivamente a terra c’era un uomo tutto bucherellato nelle gambe, polizia e carabinieri in arrivo, fuggi fuggi generale! Richiusi la porta e scaricammo la tensione immergendoci nei nostri progetti alpinistici.
Ricordo con affetto un giovane Martino Lang che veniva in negozio dal Gianni molto spesso con la nonna e si lamentava di avere sempre le braccia stanche dall’arrampicata e Gianni lo rincuorava esortandolo a tenere "duro". Lang è stato insieme ad altri giovani portenti una meteora e un’icona dell’arrampicata sportiva e Gianni certamente in Lui aveva notato queste potenzialità.
1986. Gianni è ritornato dal K2. Renato Casarotto è purtroppo morto sul ghiacciaio ritornando da un tentativo alla vetta. Lo stesso Gianni si calò nel crepaccio dove era caduto Renato per portargli soccorso.
17 Agosto 1986. Salgo al rifugio del Bosconero dove mi aspettano Gianni e Valter Savio per fare una arrampicata. C’è anche Giovanna, la moglie di Gianni, che ci parla commossa della spedizione purtroppo finita tragicamente. Il giorno dopo saliamo la Rocchetta Alta di Bosconero per la Via Dorotei-Masucci in cordata da tre. Salita che affronto sempre da capocordata, veramente difficile, con chiodatura buona ma molto distanziata. Credo fosse la seconda ripetizione. Gianni non era molto allenato ma "la classe non è acqua".
Alla base della parete, prima di iniziare la salita, Valter mi confidò che nella camerata condivisa con Gianni e Giovanna li aveva sentiti parlare per gran parte della notte. Gianni avrà certamente avuto bisogno di scaricare le tensioni accumulate nella spedizione. Verso la cima sulle rocce finali ci slegammo. Io e Valter, non perché fossimo più bravi salivamo più agevolmente; eravamo molto allenati e non avevamo particolari problemi nel salire slegati almeno fino a difficoltà di quarto grado. Gianni a un certo punto ci chiese la corda e nonostante le sue enormi capacità tecniche lo reputai un gesto di grande umiltà e sapienza. Non ho potuto dargli il mio sostegno con la corda sul Denali...
Ricordo Camilla, figlia di Gianni, che da piccolina ho tenuto in braccio alla base di Monte Cucco; era una giornata in cui tutti noi "finaleros", compreso Gianni e la moglie Giovanna, eravamo alla base della parete a guardare Alessandro Grillo che chiodava la diretta del tetto; ma questa è veramente un'altra storia.
L’appuntamento che fissava Gianni Calcagno a tutti per andare ad arrampicare a Finale era "alla 8 dalla FIAT" che altri non era che un piazzale prima dell’ingresso di Genova Ovest dove c’era una grossa concessionaria FIAT. Chi c’era c’era, chi non c’era ciccia. A volte con Gianni, tante altre con Valter Savio che non aveva la patente; quando non aveva impegni sindacali veniva anche Franco Piana che purtroppo è rimasto sull’Everest, talvolta la graziosa componente femminile Flavia Badino; molte volte con tanti altri e poi a Finale ognuno faceva quello che gli piaceva. Spesso con la mia FIAT 500 passavo da Cogoleto da Andrea Parodi che aveva una bellissima R4 Safari di colore verde.
Passato il tempo delle "classiche finalesi" era il momento della scoperta delle placche. Non ero sicuramente tra gli esploratori principali ma qualche "impronta" l’ho lasciata. Con Andrea Parodi vivevamo il periodo nella estasiata lettura del "Signore degli Anelli" un tomo di 1359 pagine; fu così che nacquero a Montesordo Lo specchio di Galadriel e La bella Eowin. Nel frattempo Gianni Calcagno forzava delle placche improteggibili salendo Superbostik. Da stringere le chiappe a salirla.
Vennero anche le Placche Crepitanti a Rocca di Corno che con il senno del poi penso dovessimo essere veramente pazzi per salirle; assicurazioni intermedie neanche a parlarne. Poi Gianni Calcagno superò i limiti con La Catarifrangente al Bric Pianarella, per i locals "il paretone". La mia fu tra le prime ripetizioni con Sandro Pansini, e ricordo il mitico traverso con il chiodo a "U" mezzo fuori e il successivo traverso su nuts di gomma incastrati nei buchi del "gravione", la roccia tutta bucherellata e friabile del paretone.
Salendo dal mare il vento porta per le valli del finalese il tuo "A ridicoli…!!!" . E così ti voglio ricordare!
di Franceso Leardi