Il peso delle ombre di Mario Casella, un libro sull'alpinismo, le bugie e le calunnie
Anche Mario Casella quando giunse in vetta al Cho Oyu, il suo primo ottomila, si trovò a camminare in nubi tanto fitte da fargli smarrire la percezione del luogo. Sarò in cima, non ci sarò. Sì, c’era, ma come dimostrarlo? Tornare senza una foto che documentasse il coronamento della salita (non una prima, peraltro, e senza la pressione di uno sponsor a cui dover rendere conto) sarebbe bastato a fugare eventuali dubbi altrui? Allora non era un neofita Casella, e sapeva quanti alpinisti avevano dovuto subire quarti gradi per dimostrare l’indimostrabile, cioè la schiettezza della propria coscienza, il valore della parola. Perché funziona così: la calunnia – canta il don Basilio rossiniano – è "un venticello", e l’invidia la nutre. Viceversa, le bugie rifulgono spesso di tanta luce da accecare per primo chi le concepisce. Accecarne la mente, intendo, così da impedirgli – pare – di distinguere il vero dal falso. Come l’Impostore di cui ha scritto bene Javier Cercas.
Le dispute sono grandi e gli uomini piccoli. E bisogna leggere ‘Il peso delle ombre’ – il bel libro di Casella, appena pubblicato da Gabriele Capelli (pp.192, 18 euro) – per averne conferma, pagina dopo pagina. Ottimo giornalista e ottimo alpinista, Casella ha affrontato con questo indispensabile bagaglio il doloroso e talvolta grottesco tema del falso nell’alpinismo, per distinguere tra bugie e calunnie, ma in particolare per interrogarsi sui meccanismi psichici e mentali insondabili di chi concepisce le prime, o sul dramma di chi è vittima delle seconde.
Un lavoro improbo, non tanto per l’abbondanza di materia fornita da due secoli e rotti di storia alpinistica, ma proprio per una peculiarità dell’alpinismo, quella cioè di non essere attività "misurabile" al pari di altre prestazioni sportive, di essere praticato il più delle volte lontano, lontanissimo da ogni possibile punto di osservazione e giudizio, e soprattutto di alimentare nei propri praticanti-adepti un pregiudizio di nobiltà su di sé, un qualcosa che li distinguerebbe dal resto dell’umanità osservata dall’alto di una vetta.
Tra i primi tentativi di salire il Monte Bianco, alla deriva perversa imboccata dalla commercializzazione degli Ottomila, si potrebbero narrare una infinità di storie. Casella ne ha scelte alcune, le più emblematiche, a suo giudizio. Alcuni casi, dibattuti sino all’indecenza, come quello della prima salita al Cerro Torre, che un novantenne Cesare Maestri continua a giurare di aver compiuto, e che sempre meno persone sono disposte ad attribuirgli. Altri meno noti, ma con uguale devastante effetto su chi ne è stato protagonista: dai dubbi avanzati sulle formidabili solitarie di Tomo Cesen sulle più difficili e inviolate pareti himalayane (dallo Jannu al Lhotse), alle riserve espresse a suo tempo sulla velocissima salita solitaria di Ueli Steck sulla sud dell’Annapurna, alle infanganti accuse a Reinhold Messner di avere abbandonato il fratello, di fatto uccidendolo, nella disperata discesa dal Nanga Parbat, nel 1970.
In un ambiente comunque competitivo, condizionato dalla relazione "atleta"-sponsor, e vittima a sua volta dell’impazzimento in tempo reale della comunicazione via social media, quale è da tempo l’alpinismo di punta, bugie conclamate, come quella dell’austriaco Christian Stangl, che si attribuì una salita al K2 non compiuta (per dirne una), hanno certamente concorso a confondere il giudizio: una verità "aggiustata" è già una bugia? Una ricostruzione lacunosa un’invenzione? Una omissione una menzogna? Un dubbio legittimo una diffamazione?
Citando i più bei nomi dell’alpinismo mondiale da oltre un secolo a questa parte, Casella reinterpreta questi interrogativi, accompagnandosi a una accurata ricostruzione dei fatti. Ma il suo merito maggiore è quello di avere evitato il piglio del giornalista d’inchiesta, preferendovi l’attenzione (e talvolta un’addolorata vicinanza) ai meccanismi psicologici, alle implicazioni esistenziali dei personaggi di questo dramma. Non deve essere stato facile: per chi ancora crede nell’uomo, condividendone nel suo caso una passione totalizzante come può essere l’alpinismo, ogni smentita, ogni "tradimento" è una ferita, la cui cura impegna più della salita più difficile.
recensione di Erminio Ferrari
Link: gabrielecapellieditore.com