Matteo Pavana e le alte difficoltà viste dall'obiettivo

La passione che sta dietro ad uno scatto: la prospettiva del giovane studente, arrampicatore e fotografo Matteo Pavana.
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Silvio Reffo su Biologica 9a, Arco
Matteo Pavana / Vertical Eye
Ricordo bene il momento esatto in cui ho deciso, autonomamente, del mio futuro. Era una fresca giornata di aprile, ed ero in compagnia di alcuni amici. Correva il 2012 ed eravamo alla ricerca di aderenza al Bus de Vela (Trento) per una scalata di prima mattina. La condizione era praticamente perfetta: freddo e secco, come piace a me.

Intorno alle 10.00 di mattina un mio amico si mise a cercare legna per accendere un piccolo fuoco. Al posto della legna però lo vidi tornare con una bottiglia di Teroldego, un vino rosso locale. Non servivano scuse per festeggiare e aprire la bottiglia a quell’ora. Ci sembrava la cosa più giusta da fare, noncuranti al pensiero di quanto tempo fosse stata nascosta tra le macerie che si trovano ai piedi della falesia. La bottiglia dopo mezz’ora era già quasi a metà.

Vidi qualcuno entrare nella falesia. Non fosse stato per l’alcol, avrei giurato di aver visto Adam Ondra scavalcarere il cancello che immette al Bus de Vela. Smisi di sorseggiare il rosso, timoroso di aver perso lucidità. Mi si avvicinò questo ragazzo e mi chiese "Ciao, sapresti dirmi dove sale Bella Regis?". Sbalordito mi resi conto di parlare proprio con il fenomeno di cui seguo spesso le salite e i film che immortalano le sue imprese: un mito che con le sue urla sui passi chiave delle vie mi trasmette passione e motivazione.

Gli indicai l’attacco e lo osservai durante il riscaldamento. Lascerò perdere il resoconto della giornata, ma quello è stato il giorno in cui lo ho visto chiudere il suo ottavo 8c+ a vista, un tiro chiodato e liberato dal mio amico Gabriele Moroni, il quale ha assistito impressionato la sua salita. La cosa che ho fatto quel giorno è stato prendere la reflex e iniziare a fotografare a raffica. Ogni movimento, ogni smorfia, ogni presa arcuata mi affascinava. I nervi con i quali "armava" quelle prese così piccole non potevano lasciarmi indifferente. Nella falesia si potevano sentire solo i suoi ruggiti e lo shutter della reflex; per il resto regnava il silenzio devoto degli spettatori. Proprio quel giorno tornato a casa decisi di inviare gli scatti più belli a un portale web molto famoso. Accettarono il mio articolo e le fotografie. Come ringraziamento mi inviarono l’annuario della loro rivista.

Il 12 aprile 2012 decisi che quello sarebbe diventato il mio lavoro. Su consiglio di mio fratello ho aperto un blog, che continuo ad aggiornare. A dire il vero non sapevo in cosa mi stavo cacciando, una vera e propria nicchia di mercato, caratterizzata da una forte concorrenza e mancanza di liquidità. Si parla di arrampicata, non di golf né tantomeno di calcio. Ho terminato la laurea triennale di economia mentre frequentavo un corso di alta formazione in grafica multicanale, che comprendeva un buon numero di crediti formativi nella fotografia e nel video. Sono stati solo i primi duri passi sul sentiero accidentato dalle proprie scelte.

Dopo alcuni anni di lavoro nel settore non mi sento un professionista. Ma posso dare la mia opinione e condividere i miei sentimenti. Tutto ciò che riguarda questo mondo così vasto e complesso mi affascina, mi scombussola, mi assorbe completamente. Da una parte sento di dover investire tutto il mio tempo in questa professione: fotografare e filmare le alte difficoltà e le storie dei suoi protagonisti. Vite contraddistinte dalla libertà che conferisce l’arrampicata quanto la prigionia del sacrificio al quale si sottopone la propria mente e il proprio corpo. Allo stesso tempo sono storie di persone che si spostano senza sosta per il mondo intero, senza una dimora fissa, alla ricerca del proprio "limite" (parola ormai abusata ma che è sempre ricorrente). Poter essere testimone di queste storie con la tecnologia nelle mie mani è fantastico. Ma la cosa più importante per me è far parte di quelle storie, viverle con quei campioni che ammiro e di cui mi informo quotidianamente. La maggior parte delle persone leggono i giornali, io invece leggo con ossessione i portali che riportano notizie di arrampicatori e alpinisti, gradi, luoghi remoti. È più forte di me. Mi arrendo al mio stesso volere e continuo a immagazzinare informazioni.

Fotografare l’alta difficoltà, per me, non è solo il resoconto visivo di una salita. Cosa vedo io attraverso l’obiettivo? Intravedo avventure in posti lontani. Mi piace l’idea di condividere qualcosa con lo scalatore, che sia una salita importante o la sua frustrazione, le aspettative o le paure di non essere all’altezza. Essere di aiuto alla comunità di cui mi sento e voglio far parte mi fa sentire soddisfatto e vivo. Non ho solo impiegato tempo e risorse nella mia formazione, ma ho deciso di investire in viaggi che mi permettessero di ampliare i miei orizzonti oltre che di fotografare. Tramite conoscenze comuni ho avuto la possibilità di condividere molto tempo con due degli atleti italiani più in forma in questo momento: Gabriele Moroni e Silvio Reffo, con i quali sento di aver stretto un solido rapporto di amicizia oltre che di passioni in comune. Grazie alla loro disponibilità ho fatto esperienza e acquisito visibilità, cosa che invece con climber meno noti sarebbe stato del tutto impossibile. In loro compagnia in poco meno di un anno ho visitato alcune delle mecche più rinomate per l’arrampicata sportiva: Frankenjura, Val di Mello, Kalymnos, Catalunya sono i viaggi di cui conservo con nostalgia intesi ricordi. Col passare del tempo mi convincevo di aver fatto la scelta giusta, dovevo continuare a perseverare.

Filmare e fotografare gli scalatori mi mette molto sotto pressione: la preparazione del materiale, il sopralluogo e le manovre di sicurezza sono quello che identificherei come "prima fase". Tutto il processo si carica di forti aspettative per la fase successiva, quella di scatto. Nel momento in cui issatomi con le jumar sulle corde statiche e assicuratomi con il grigri posso finalmente concentrarmi su quello che voglio che il mio occhio veda e che contemporaneamente l’obiettivo ritragga. Solitamente gli aspetti che più mi affascinano sono il passo chiave della via, la contrattura dei muscoli, il paesaggio, l’equilibrio. Questo è il momento di maggiore libertà: respiro e scatto respiro e scatto. Trattengo il fiato per muovermi il meno possibile, sento i polmoni bruciare. Infine continuo a scattare. È una sensazione bellissima. È la sensazione di libertà e vita che senti nell’istante in cui sai di essere nel posto giusto al momento giusto, a fare la cosa per cui ti senti portato. Tutto il momento è incorniciato da un clima di amicizia e spensieratezza.

La maggiori soddisfazioni le estraggo dalle due fasi successive: la postproduzione e la pubblicazione. Ho già detto che la tecnologia mi affascina. Ma vorrei ribadirlo, e cercare di spiegarne il motivo. È incredibile come i software e le macchine fotografiche più avanzate possano trasformare una bella fotografia in un capolavoro. Attraverso la postproduzione siamo in grado di controllare ogni minimo aspetto della fotografia, cosa che in un mondo ideale sarebbe quasi del tutto impossibile o quantomeno non si adatterebbe alle esigenze di fotografie di cronaca (si avvicinerebbe a un set fotografico). Per la pubblicazione si preparano gli scatti e si inviano ai clienti o alle redazioni, ma per questa fase non ho ancora abbastanza esperienza per descrivere i vari passaggi in maniera dettagliata.

Generalmente mi riservo un’ultima fase, quella più personale: migliorarmi. Per quanto siano piccole, si sa bene che sono le briciole alla fine che fanno il pezzo di pane. Probabilmente è lo sforzo più grande a cui ambire, visto che la maggior parte delle soddisfazioni e dei risultati si fanno attendere più di quanto siamo spesso disposti ad aspettare. Ma quale alternativa abbiamo, smettere di sognare?

di Matteo Pavana





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