Primavera nepalese, tra rivoluzioni e cime
Le riflessioni di Manuel Lugli sull'appena conclusa stagione fra le cime himalayane e le grandi manifestazioni di protesta e cambiamento a Kathmandu.
"Questa stagione, quella della primavera Himalayana che ormai s'avvia all'epilogo, ci fa riflettere più di qualsiasi altra volta su quel che è successo in questi intensi mesi. Giorni su giorni si sono succeduti, giornate coronate dalle cime raggiunte ma anche, e soprattutto, segnate da quella "Primavera di Kathmandu" che, improvvisamente, ha accelerato cambiamenti che sembravano non compiersi mai. E' stata una primavera difficile, per certi versi imprevedibile, per molti versi di speranza. Una primavera che gli alpinisti hanno vissuto, come sempre, all'inseguimento dei loro sogni. Per molti il viaggio è passato per la vetta. Per altri, invece, l'appuntamento è stato semplicemente rimandato. Per altri ancora il destino ha riservato il suo lato più oscuro... Ora che le inarrestabili piogge ritornano a scandire il tempo, per i sogni degli alpinisti tutto sembra possibile e tutto sembra immutabile sulle montagne dell'Himalaya. Mentre, nelle valli e nelle città del Nepal, le moltitudini sognano e sperano in una nuova stagione, in una migliore vita... PRIMAVERA NEPALESE tra rivoluzioni e cime di Manuel Lugli La primavera più intensa degli ultimi dieci anni è ormai finita. Gli ultimi alpinisti stanno approdando a Kathmandu in questi giorni, molti di loro appena consapevoli di essere stati ad un pelo dal trovarsi davvero naufraghi in un paese in guerra civile. Le grandi manifestazioni di aprile, iniziate il 6 e scandite da scontri ripetuti e violenti che hanno portato in un mese alla morte di decine di manifestanti - ufficialmente quattordici, ma il sospetto di cifre decisamente superiori è più che legittimo - hanno condizionato gli spostamenti di molte spedizioni. Coprifuoco, voli cancellati, negozi chiusi, materiali e cibo non reperibili. Ma una volta lasciata Kathmandu e raggiunti i campi base, per gli alpinisti tutto è sfumato, per ricomporsi nella concentrazione sulle rispettive salite: alpinismo batte rivoluzione 1 a 0. Dal nostro osservatorio privilegiato - la nostra permanenza a Kathmandu è durata esattamente per tutto il periodo caldo, dall'inizio del grande sciopero fino al cedimento del re su tutte le richieste dei partiti e della gente - abbiamo potuto seguire da vicino l'intreccio complicato di quelle giornate violente e terribili sulle strade e quelle dell' “esilio” in altitudine degli alpinisti. Sulle prime abbiamo già scritto, ma l'idea di aver vissuto qualcosa di “storico” per il futuro del Nepal, rimane, anche a freddo, a due mesi dalle grandi manifestazioni. Non solo e tanto per quello che è accaduto in conseguenza delle stesse, ma soprattutto per ciò che è avvenuto durante quei giorni di scontri e protesta. In quei pochi giorni - perché un mese è un tempo davvero ridotto per la portata di un cambiamento rivoluzionario - abbiamo assistito alla presa di coscienza di tutto un popolo delle possibilità di condizionare il proprio futuro. Non vorremmo apparire retorici od esagerati, ma vedere in che modo la protesta si allargasse di giorno in giorno a tutti gli strati sociali, dalle classi più elevate dei professionisti e dei funzionari, fino alle più modeste dei piccoli commercianti o dei venditori ambulanti, superando i confini delle categorie storicamente alla base di ogni rivoluzione moderna, cioè studenti ed intellettuali, è stato illuminante. Così come lo è stato avvertire in modo netto il cambio nella percezione del re e della monarchia in generale presso la gente: il re non più come monarca sacro ed intoccabile, emanazione della divinità, ma anzi dittatore ottuso e feroce, ostacolo da rimuovere per proseguire verso una democrazia compiuta. Le istanze dei manifestanti, di tutto un paese, in quelle sole quattro settimane di stolida resistenza del re, sono passate da “vogliamo la democrazia” a “a morte la monarchia”. Chi conosce un minimo di storia del Nepal capisce la portata storica di questo cambiamento. Pur riconoscendo lo scarso attaccamento, fin dai primissimi tempi, dei nepalesi per questo re Gyanendra, troppo superbo e lontano dai problemi reali del popolo, e soprattutto mai del tutto liberato dal dubbio di aver avuto una qualche parte nella tragica fine del fratello Birendra e dell'intera famiglia reale nel 2001. Quanto questi eventi riusciranno a far risalire il Nepal dal baratro economico e sociale in cui si trova da molti anni a questa parte, è difficile dirlo. La guerriglia maoista col suo cessate il fuoco unilaterale di tre mesi e la volontà di entrare a far parte della costituente, che dovrebbe portare il paese a nuove elezioni e nuovo governo, ha lanciato un segnale forte. Ma pure in essa convivono con difficoltà due anime: quella politica, che vede nel dialogo con i partiti democratici e nella partecipazione al governo del paese il futuro della propria azione, e quella più rivoluzionaria, armata, che vede nella sola, vera rivoluzione e nel conseguente “governo del popolo”, il raggiungimento della propria meta. Quest'ultima fazione, responsabile di azioni di guerra che hanno portato alla morte di oltre tredicimila persone in dieci anni, tra soldati e civili, è potente, ma non è finora riuscita a raccogliere un consenso completo, soprattutto a causa delle azioni che troppo spesso hanno coinvolto la popolazione civile: arruolamenti forzati, attacchi e saccheggi dei villaggi, violenze gratuite. Si tratterà dunque di vedere quanto la parte politica riuscirà a fare per contare davvero nel governo del paese e togliere armi - metaforicamente e letteralmente - dalle mani dell'ala combattente. Quel che è certo, è che il paese deve recuperare la sua principale fonte di reddito, cioè il turismo. Se togliamo la categoria degli alpinisti, che non ha mai smesso di frequentare il paese - anche nei giorni della grande crisi le spedizioni hanno continuati ad arrivare senza interruzione - le altre tipologie di turismo, trekking e tour culturali, sono crollate drammaticamente, con enormi difficoltà per tutte le categorie coinvolte, hotel, lodge, ristoranti, agenzie, trasporti, guide e portatori. Il turismo meno specializzato già negli anni scorsi aveva visto un drastico calo dovuto alla presenza maoista in molte delle regioni più frequentate dai trek. Gli incontri inquietanti, seppur mai pericolosi, con drappelli armati ed i cosiddetti “contributi” da pagare nelle valli, non hanno certo favorito l'arrivo di trekkers. Le gravissime tensioni del mese di aprile poi, hanno significato annullamenti a tappeto e crollo di presenze anche nel campo del turismo più “soft”, quello dei tour culturali. Insomma moltissimo ci sarà da fare, se la situazione lentamente giungerà ad una normalizzazione, per recuperare credibilità e numeri. Gli alpinisti, dicevamo, sono invece arrivati e, seppure con qualche difficoltà a raggiungere le montagne date dalla situazione generale di blocco, hanno potuto “lavorare” senza grandi problemi. I risultati stessi, ottimi, nonostante un tempo in generale non proprio clemente, lo testimoniano. Per fare qualche esempio italiano, Gnaro Mondinelli, Marco Confortola, Christian Gobbi e Michele Enzio in vetta allo Shisha Pangma, lo stesso Mondinelli subito dopo in vetta al Lhotse assieme a Gianpaolo Corona e Giampaolo Casarotto. Stefan Andres e Alessandro Colleoni in vetta al Cho Oyu. Mario Vielmo, Angelo Giovanetti, Renzo Benedetti, Mario Panzeri e Daniele Bernasconi in vetta al Makalu. Nives Meroi e Romano Benet in cima al Dhaulagiri. Roby Piantoni con Marco Astori e Simone Moro da solo (immigrato clandestino in Tibet con la sua traversata sud-nord) in vetta all'Everest. Fabio Meraldi e Diego Giovannini in vetta all'Ama Dablam. In qualche caso hanno magari lavorato anche troppo, come Karl Unterkircher e compagni al Mount Genyen in Sichuan, vetta sacra scalata in aperto contrasto con i monaci locali. Non crediamo di essere “bigotti”, né ci interessa la polemica fine a sé stessa, sport nazionale italiano. Non è neppure in discussione la stima per Unterkircher, alpinista di altissimo livello e degna persona; l'idea poi di un alpinismo di esplorazione che non sia solo ottomila ci trova entusiasti. Ma certo - al di là di tutte le curiose rettifiche in rete, con gli alpinisti che prima salgono all'insaputa dei monaci e poi se li ritrovano addirittura come portatori d'alta quota - ci sembra che l'idea di salire una montagna sacra, con tutto lo spazio che l'Himalaya dona agli alpinisti, meritasse in generale una riflessione un po' più attenta. Questa stagione ha portato anche ad un altro record, quello dei morti sull'Everest: dieci alpinisti (al 31 maggio), numero secondo solo al famigerato 1996, l'anno di aria sottile. Anche qui ci si potrebbe scrivere un nuovo libro horror - anzi, siamo sicuri che ne uscirà più d'uno il prossimo autunno - con moribondi abbandonati, moribondi risorti, modelle, amputati, nani e ballerine. Sarcasmo cinico? No, realismo e realtà. Anche quest'anno sull'Everest è salito di tutto e di più, secondo copione. Nulla sorprende ormai su questa montagna magnetica, che i soloni di ogni campo continuano a descrivere come facile, alla portata di tanti avventurieri purchè adeguatamente portafogliuti. Resta il fatto che ogni tanto però, il Qomolongma decide di ristabilire ordine e va giù pesante, come quest'anno. Senza purtroppo distinguere tra gli avventurieri ed i suoi figli, gli sherpa, che, anche quest'anno, hanno pagato un prezzo salato al loro duro lavoro: tre morti tra i seracchi dell'icefall. Ma questo è l'Everest, bellezza! Con buona pace dell'indignazione (legittima) di Sir Edmund Hillary. Attendiamo, dunque, che questa estate porti un po' di quiete tra le grandi montagne himalayane e che il monsone dilavi una primavera difficile, dura, ma che potrebbe rappresentare l'inizio di una nuova stagione di pace ed il ritorno ad un accettabile grado di prosperità. Manuel Lugli
Nelle foto, dall'alto: Kathmandu (F. Tremolada); Manuel Lugli (arch. Lugli); Everest versante nord (F. Tremolada). |
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