Oxus, alpinismo per la pace in Afghanistan
Il 25 giugno partirà per il Noshaq (7492 metri), nel Hindu Kush afghano, la spedizione ideata da Mountain Wilderness International e diretta da Carlo Alberto Pinelli e di cui farà parte anche Fausto De Stefani.
Potrebbe chiamarsi «spedizione di pace» o «missione alpinistica» quella che il prossimo 25 giugno partirà alla volta dell'Hindu Kush afghano, nel nord-est del paese. Obiettivo «tecnico», l'ascensione del Monte Noshaq (7492 metri), obiettivo «simbolico» quello di riaprire al mondo, alpinistico e non, il leggendario corridoio di Wakhan, una regione di straordinaria bellezza, posta a cuscinetto tra il Pakistan e il Tajikistan (ex Urss). A presentare la spedizione-missione all'Isiao (l'Istituto italiano per l'Africa e l'Oriente, uno fra gli enti patrocinanti), c'era colui che esattamente 40 anni fa aveva raggiunto l'Hindukush in macchina da Roma, con un gruppo di amici alpinisti: Carlo Alberto Pinelli, oggi responsabile della missione Oxus - dal nome che gli antichi greci attribuirono al fiume Amu Darya, che delimita a nord l'HinduKush afghano. Il coordinatore generale di Mountain Wilderness International - l'associazione ambientalista che ha ideato il progetto - ha avuto un sussulto di (meritato) compiacimento nel ricordare l'avventurosa esplorazione del 1963 e nel prospettare l'altrettanto ambizioso progetto del 2003, un messaggio di pace e di ricerca di normalità in un paese, l'Afghanistan, che da oltre due decenni vive in una condizione di guerra perpetua. Il rischio non è indifferente: il successo della spedizione alpinistica vorrebbe servire da cassa di risonanza per diffondere nel mondo degli appassionati di viaggi, di trekking, di montagne, il messaggio che è possibile addentrarsi, senza pericoli, nelle vallate dell'Hindukush; un qualsiasi intoppo, anche minimo, al buon andamento della missione, farebbe risuonare l'eco opposta: lasciare l'Afghanistan al proprio destino. Sul buon esito della spedizione si nutrono pochi dubbi. Della squadra, sotto la guida alpinistica di Giorgio Mallucci, fanno parti himalaysti di prim'ordine: da Fausto De Stefani (14 «ottomila» al suo attivo e un'esperienza senza confronti) al francese Olivier Paulin, un ottomila e diversi settemila nel sacco assieme a una grande esperienza didattica; due donne, la slovena Irena Mrak e la francese Jocelyne Audra, e ancora lo svizzero Marco Schenone, il catalano Lambert Colas Torán, il giornalista triestino Giorgio Gregorio. Nell'arco di 45 giorni il gruppo installerà il campo base a 4800 metri, cui seguiranno tre o quattro campi d'alta quota, per poi raggiungere i 7492 metri della vetta. Tutto il materiale alpinistico e le attrezzature tecnico-logistiche di supporto dovranno essere portate direttamente dall'Europa, poiché a Kabul come nelle vicinanze dell'Hindu Kush manca qualsiasi struttura di supporto, al contrario di quanto avviene in India, Nepal o Pakistan. Con il gruppo partiranno da Kabul 70 colli, su un camion e sei jeep, molto probabilmente sotto scorta armata. Una settantina di portatori aiuterà la spedizione nei tre giorni di avvicinamento al campo base e per coloro che poi resteranno con il gruppo è stato portato l'equipaggiamento alpinistico completo, dagli scarponi agli occhiali (tutta un'altra situazione rispetto al vicino Pakistan dove si trovano in loco materiali e attrezzature in esubero, lasciati da centinaia di spedizioni). Di pari passo alla spedizione alpinistica si muoverà quella «socio-umanitaria», il vero motore di questa missione, l'autentica plusvalenza. Il progetto di Mountain Wilderness International, presentato al governo di Kabul, vuole favorire, con appositi corsi di formazione il riscatto economico e sociale dei valligiani del posto interessati ad acquisire le competenze minime necessarie per proporsi ai visitatori stranieri come affidabili guide di trekking e facili ascensioni. Come accaduto in precedenza nel vicino Hindu Kush pakistano, il progetto di Mountain Wilderness vuole fornire ai locali gli strumenti per svolgere un ruolo attivo e non più solo passivo, quello dei portatori tout court, nei confronti dei visitors occidentali. Se e quando il turismo (trekkista e alpinista) arriverà in Afghanistan, potrebbe trovarsi di fronte quel minimo di cultura ambientalista e alpinista, capace di non sottostare alle regole del turismo mordi e fuggi, all'invasione di sentieri attrezzati e corde fisse, alla deplorevole abitudine di seminare spazzatura in alta quota. Certo, per un paese che ha ancora a che fare con la sopravvivenza quotidiana, con le mine e con un'eredità di guerra ben pesante, parlare di trekking può sembrare una provocazione, ma questo forse è proprio lo scopo del progetto. di Francesca Colesanti
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