Nives Meroi e Romano Benet: Io sono le montagne che non ho salito
Nives Meroi e Romano Benet con la terza presentazione italiana della loro serata, Io sono le montagne che non ho salito, hanno raccontato a Codogno (Lodi) la loro storia di vita e di alpinismo. Una serata speciale per una storia speciale, come ci racconta Manuel Lugli.
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Nives Meroi e Romano Benet a Courmayeur per la prima serata di Io sono le montagne che non ho salito.
Lorenzo Belfrond
E' difficile ormai assistere a conferenze interessanti sulla montagna. Meno che mai quelle a tema himalayano. Si passa dalla noia all'eccesso con grande facilità, pochi si salvano. Simone Moro coi suoi racconti perfetti e le grandi immagini, Kurt Diemberger, che nonostante l'età e le diapositive ingiallite possiede come pochi la capacità incantatoria delle parole. Quasi tutto il resto è dimenticabile. Per questo la serata di giovedì 17 novembre di Nives Meroi e Romano Benet a Codogno - "Io sono le montagne che non ho salito", terza presentazione italiana - è stata una boccata di ossigeno.
Le parole di Nives si susseguono pulite, senza eccessi nè false modestie. Racccontano gli ultimi anni, dal 2007 al 2009 e si sospendono sugli anni malati di Romano. Raccontano di alcuni bei successi - sui pendii affollati di Everest e Manaslu - e di vari fallimenti, all'Annapurna ed al Makalu, per due volte. Perchè il fallimento - il “fracaso”, come lo definiscono con bel termine gli alpinisti argentini - è parte fondamentale dell'attività alpinistica, così come della vita di tutti i giorni. E' fondamentale perché mette davanti all'inevitabilità dell'imprevisto, così come delle scelte sbagliate e mostra tutta l'umana debolezza. Ma è fondamentale anche perché - pure se non sempre e non a tutti - il fallimento insegna. Insegna a riconoscere gli errori e a ripartire, spesso con maggiore spinta.
L'accettazione del fallimento è parte dell'educazione sentimentale di qualsiasi bravo alpinista, per forte che sia. Ed è un punto da cui risalire per tornare, magari per altre vie e con altre misure, al successo. Nives e Romano hanno sempre fatto buon uso dei loro fallimenti. Il più importante proprio nel 2009: la mancata salita di Nives al Kanchenjunga, ridiscesa da 7.600 metri con Romano in grosse difficoltà per il manifestarsi della malattia, nonostante le alte probabilità di fare cima e le insistenze di Romano stesso, è ciò che gli ha salvato la vita.
Le immagini sono molto belle e spettacolari, ma fanno da ambiente alla parola che rimane quasi impressa sullo scorrere dei fotogrammi come se fosse scritta. E sono parole che pur nella loro sobrietà ed eleganza formale, emozionano. Credo che tutti gli spettatori - sala strapiena e gente in piedi - abbiano avvertito la profonda sincerità delle emozioni e dei fatti raccontati. E che tutti siano stati doppiamente felici di sapere che le vicende alpinistiche ed umane di Nives e Romano, dopo due anni di sospensione - il loro quindicesimo ottomila, come hanno detto - riprenderanno la prossima primavera.
Il test autunnale al Mera Peak ha restituito la coppia agli antichi splendori: tempi record e problemi zero. Quale che sia la montagna che sceglieranno per la loro ripartenza, si troveranno davanti le stesse difficoltà e paure, illusioni e speranze di sempre. Ma ogni cosa sarà illuminata. Illuminata dal percorso umano più duro che si possa immaginare, quello della malattia e della guarigione: l'uscire a rivedere le stelle. Tutto il resto sembrerà, credo, una semplice passeggiata.
di Manuel Lugli
Le parole di Nives si susseguono pulite, senza eccessi nè false modestie. Racccontano gli ultimi anni, dal 2007 al 2009 e si sospendono sugli anni malati di Romano. Raccontano di alcuni bei successi - sui pendii affollati di Everest e Manaslu - e di vari fallimenti, all'Annapurna ed al Makalu, per due volte. Perchè il fallimento - il “fracaso”, come lo definiscono con bel termine gli alpinisti argentini - è parte fondamentale dell'attività alpinistica, così come della vita di tutti i giorni. E' fondamentale perché mette davanti all'inevitabilità dell'imprevisto, così come delle scelte sbagliate e mostra tutta l'umana debolezza. Ma è fondamentale anche perché - pure se non sempre e non a tutti - il fallimento insegna. Insegna a riconoscere gli errori e a ripartire, spesso con maggiore spinta.
L'accettazione del fallimento è parte dell'educazione sentimentale di qualsiasi bravo alpinista, per forte che sia. Ed è un punto da cui risalire per tornare, magari per altre vie e con altre misure, al successo. Nives e Romano hanno sempre fatto buon uso dei loro fallimenti. Il più importante proprio nel 2009: la mancata salita di Nives al Kanchenjunga, ridiscesa da 7.600 metri con Romano in grosse difficoltà per il manifestarsi della malattia, nonostante le alte probabilità di fare cima e le insistenze di Romano stesso, è ciò che gli ha salvato la vita.
Le immagini sono molto belle e spettacolari, ma fanno da ambiente alla parola che rimane quasi impressa sullo scorrere dei fotogrammi come se fosse scritta. E sono parole che pur nella loro sobrietà ed eleganza formale, emozionano. Credo che tutti gli spettatori - sala strapiena e gente in piedi - abbiano avvertito la profonda sincerità delle emozioni e dei fatti raccontati. E che tutti siano stati doppiamente felici di sapere che le vicende alpinistiche ed umane di Nives e Romano, dopo due anni di sospensione - il loro quindicesimo ottomila, come hanno detto - riprenderanno la prossima primavera.
Il test autunnale al Mera Peak ha restituito la coppia agli antichi splendori: tempi record e problemi zero. Quale che sia la montagna che sceglieranno per la loro ripartenza, si troveranno davanti le stesse difficoltà e paure, illusioni e speranze di sempre. Ma ogni cosa sarà illuminata. Illuminata dal percorso umano più duro che si possa immaginare, quello della malattia e della guarigione: l'uscire a rivedere le stelle. Tutto il resto sembrerà, credo, una semplice passeggiata.
di Manuel Lugli
Note:
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