Monte Pizzocco, solitaria della via Schwarzkopf di Maurizio Felici
Il 23/10/2012 la guida alpina Maurizio Felici ha effettuato la prima solitaria della via Schwarzkopf (400m 8- / A1) sul parete sud ovest del Monte Pizzocco nelle Vette Feltrine (Dolomiti).
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Il tracciato della via Schwarzkopf (400m 8- / A1, Aldo De Zordi e Oldino De Paoli, 1988), Monte Pizzocco, Vette Feltrine, salita in solitaria da Maurizio Felici nell'ottobre 2012.
Maurizio Felici
Il Monte Pizzocco non è una delle cime dolomitiche più conosciute. Ma chi vive in Val Belluna, chi conosce le Vette Feltrine, sa che questa bella cima non ha niente da invidiare ad altre montagne nelle Dolomiti. Basti dire che la prima via d'arrampicata, che risale al 1934, è stata aperta da Ettore Castiglioni, Bruno Detassis e Antonio Zoia. E ricordare che subito dopo aver aperto la storica Via degli Svizzeri alle Tre Cime di Lavaredo nel 1959, Albin Schelbert e Hugo Weber si sono immediatamente recati sull'immensa parete nordest del Monte Pizzocco per aprire un'altra nuova via, ancora più difficile di quella sulla Cima Ovest e alta quasi 900m. E, ancora, sottolineare che le pareti nordest e sudovest portano le firme di altri grandi, come Franco Miotto, Riccardo Bee e Pierangelo Verri. Evidentemente questa montagna aveva, e ha ancora, qualcosa di particolare, tanto che nell'ottobre scorso la guida alpina Maurizio Felici ha effettuato la prima solitaria della via Schwarzkopf, la linea aperta nel 1988 da Aldo De Zordi e Oldino De Paoli. "Inizialmente volevo effettuarla in auto-sicura" ci ha raccontato Felici che non aveva mai salito la via in precedenza "ma una volta sulla parete l'ho fatta slegato, utilizzando due longe nel tratto chiave e lasciando la corda libera nel vuoto. Il tutto in tre ore di arrampicata." Tre ore intense, per salire una via ed una montagna immersa nelle Vette Feltrine che sono, secondo Castiglioni "il concentrato di tutte le bellezze Dolomitiche."
VIA SCHWARZKOPF IN SOLITARIA di Maurizio Felici
Il mese di ottobre 2012, per noi appassionati di montagna, è stato un mese a dir poco eccezionale, temperature miti e assenza di precipitazioni nevose, caldo la mattina e caldo la sera. Sono le condizioni ideali per una salita di fine stagione. Era dall’inizio dell’estate che desideravo tornare sulla parete Sud Ovest del Monte Pizzocco, sempre li in bella vista percorrendo la Val Belluna, dove 24 anni fa era stata l’ultima volta che ci avevo arrampicato.
Torno spesso al Pizzocco passando per il Biv. Palia, semplicemente per salire lungo la via Normale. 1200 metri di dislivello di sentiero e roccette, costantemente impennato lungo la massima pendenza. Un ottimo percorso per fare gamba, e una bellissima montagna da scoprire.
All’inizio dell’estate avevo proposto a qualche amico di andare a salire quella che secondo me era la linea piu elegante della parete, la via Schwarzkopf, aperta degli amici Aldo De Zordi e Oldino De Paoli nel 1988. Tra i miei compagni di cordata non avevo trovato un grande entusiasmo per andarla a ripetere, d’altronde tra le montagne che ci circondano la scelta di vie è talmente ampia che non ho mai insistito, anche perchè le alternative che mi proponevano erano altrettanto interessanti.
Il giorno sabato 19 ottobre i bollettini meteo concordano per 5 giorni di caldo e sole su tutte le Dolomiti. Ho un forte desiderio di passare qualche giorno al caldo in parete, l’ultimo scorcio d’estate prima della fine della bella stagione. Improvvisamente mi torna in mente la via Schwarzkopf al Pizzocco e senza pensarci un attimo in più decido di andarla a ripetere in solitaria fra tre giorni.
Parlo della mia idea con Luciano che mi propone il suo Grigri modificato e mi da delle ottime dritte sul suo utilizzo e su alcuni accorgimenti tecnici da utilizzare. Lo provo su una via di 6b+ a Schievenin, il sistema di autosicura funziona a dovere e permette una progressione fluida.
La giornata del 22 ottobre è meravigliosamente mite, la voglia di immergemi nella mia avventura è troppo forte. Un irrefrenabile voglia di agire mi porta ad anticipare di un giorno la partenza. Tornando a casa mi fermo nel primo supermercato che incontro, giro tra gli scaffali e rimedio un po' di cibo per i preventivati due giorni in parete.
Guardo la relazione e lo schizzo della via. La linea mi piace molto, verticale con un ardito traverso verso sinistra che vince l’enorme diedro tetto che divide in due la parete nella parte bassa. Non ne sò altro, non sò se sia mai stata salita in solitaria e non conosco nessuno che l’abbia ripetuta che me ne abbia parlato, ma è una linea che mi ha sempre affascinato e questa è l’unica cosa che mi interessa.
Il richiamo della montagna è un possente Titano che agisce in noi, una forza astratta dalle forme mutevoli che ti coinvolge nel più profondo, ti porta a fare grosse fatiche, correre enormi rischi senza una "ragionevole" motivazione, eppure il fulcro di tutto è li. Discendi nei meandri della tua coscienza, segui il filo d’Arianna che ti porta, presa dopo presa, a salire questi castelli dorati, assorto in un mistico rito di ascesi fisica, in una diversa dimensione di percezione dello spazio e del tempo, un viaggio "con" e "in" noi, come un onda lunga che ti sospinge oltre la risacca dell’io terreno, qualcosa di mistico per farla breve.
Preparo la caffettiera per l’ora della sveglia fissata alle 2,45 del mattino. Verso le ventidue sono gia nel mio letto. Sono molto rilassato e gioioso di partire e mi addormento velocemente. Mi sveglio senza fatica e pieno di energia. Da casa, in quaranta minuti raggiungo San Gregorio nelle Alpi e poi la frazione di Roncoi. Qui lascio la macchina. Sono circa le quattro del mattino ed il silenzio è totale così come il buio. Controllo il materiale nello zaino e alla luce a LED della pila frontale mi incammino lungo il sentiero che conduce al Bivacco. Vedo solo cio che illumino, nel bosco non filtra nemmeno quel poco di pallido chiarore che danno le stele, il sentiero è solcato e quindi facile da seguire. Dopo circa un ora sono al bivacco a quota 1756. E' ancora presto, l’alba dovrebbe sorgere intorno alle 7,20. Devo per forza prendermela con calma. L’ultimo tratto del percoso per giungere all’attacco della via è fuori traccia su roccette e canalini friabili. Impossibile farlo al buio!
Mi porto lentamente verso la dorsale dove termina il sentiero ed attendo le prime luci. L’alchimia dell’alba magicamente da vita alle forme e il buio piatto concede allo sguardo la prospettiva. Mi avvio verso la parete, scendendo il canale che diviene via via sempre piu ripido e termina in un roccioso e sassoso colatoio della parete. Scendo nel fondo, mi abbasso su roccette per un centinaio di metri e ricomincio a traversare un po' camminando e un po' arrampicando. Intravedo sopra di me l’enorme stapiombo giallo posto all’attacco della via.
Ancora pochi metri d’arrampicata tra roccette ed erba ed eccomi all’attacco. Scruto la parete aggettante, alla mia sinistra il grande strapiombo, a destra una serie di placche interrotte da piccoli tetti formati da stratificazioni oblique. Preparo con cura tutto il materiale per la progressione in autosicura, faccio qualche allungamento per preparare le articolazioni alla salita, lego lo zaino alla fine della corda. Il tutto con estrema calma e concentrazione. Decido di rinunciare all’autosicura per questo primo tiro. Salgo i primi metri facili ma delicati per la scarsa qualità della roccia e per l’umidità, sono sotto il tetto che dovrebbe opporre difficoltà di 5+. Da sotto non è facilmente intuibile quale sia il punto debole per superarlo. Vado un po' a destra e un po' a sinistra, finalmente mi decido prendo una presa rovescia alzo i piedi e mi allungo oltre il tetto alla ricerca di una buona e solida presa.
Una bella tacca compatta mi da fiducia e mi permette di ribaltarmi sulla placca sovrastante. Traverso alcuni metri a sinista su roccia buona, supero un altro piccolo strapiombo e proseguo su terreno piu facile ma di roccia decisamente scadente. Scelgo attentamente la linea da seguire evitando con perizia le numerose scaglie di roccia marcia. "Mi sto divertendo" penso dentro di me! Dopo i primi metri nei quali ricercavo l’equilibrio psicofisico e le giuste sensazioni, mi sento concentrato e la montagna mi è amica. Non tira vento, e nonostante siano le prime ore del mattino la temperatura è mite. Mi fermo sul primo terrazzino che incontro per provare a recuperare lo zaino attaccato alla fine della corda. Viene su a scatti e faccio molta fatica e quando finalmente riesco a recuperarlo mi accorgo che è stracciato… noooo!
Capisco subito che recuperarlo è uno sforzo inutile, perciò decido di infilarmelo in spalla e proseguire così. Nonostante il peso dello zaino e dei materiali, la progressione mi pare comunque fluida, non sento di fare particolare fatica nell’arrampicare. Ora la roccia è molto articolata e consente di evitare le zone friabili. Per placche di buona roccia in poco tempo mi ritrovo sotto il tiro chiave, 3 passi di A1 o 8°-. Scruto lo strapiombo biancastro che traversa a sinistra verso una zona di placche di roccia molto compatta e verticale. Devo decidere come proseguire; faccio alcune brevi riflessioni e scelgo la progressione senza l’autosicura, con la corda lasciata nel vuoto e attaccata all’imbracatura, per distribuire nel modo più ottimale i carichi che porto con me, e di utilizzare solo due longe per assicurarmi ai chiodi piu prossimi.
Molto concentrato comincio a traversare e dopo i primi metri inizio ad alzarmi. Incontro un primo chiodo a pressione. Il suo aspetto non è molto rassicurante, é praticamente sfogliato, e non lo prendo nemmeno in considerazione. Stringo due buone tacche e mi allungo con la mano destra ad un buco verticale con il bordo fragile ma ottimo all’interno. Raggiungo il secondo chiodo a pressione, lo osservo, lo testo con un rinvio e decido di utilizzarlo per la longe. Faccio una spaccata a sinistra, prendo un verticale di sinistro e incrocio di destro ad una tacca di cui non posso verificare la solidità… Nella relazione della via si parlava di roccia ottima, e dentro di me penso "beh, tutta questa buona roccia non la vedo sinceramente." Ma ho margine e quindi mi muovo con molta calma. Vedo la protezione successiva, una fessura orizzontale con un chiodo a lama arancione. Si muove sia destra che a sinistra, ma vista la sua leva, ben caricato verso il basso, offre ottime garanzie di tenuta per un resting che mi serve per rimuovere la longe ed il rinvio sul chiodo a pressione.
Mi rilasso un attimo in questa posizione appeso al chiodo. Sotto di me il vuoto. Osservo il resto del traverso, non sembra difficilissimo ma pur sempre strapiombante e su roccia non buona. Due metri a sinistra vedo un chiodo in un diedrino. Mi allungo per verificarlo, ma niente da fare, è pessimo, e con uno strattone uscirebbe certamente. Decido così di lasciar perdere la longe e di proseguire slegato. Testo molto attentamente ogni appiglio e così anche per gli appoggi. Con molta calma e delicatamente traverso fino ad arrivare sulla roccia solida. Traverso ancora con un arrampicata non facile, ma fortunatamente su qualcosa di solido. Alla fine del traverso uno stretto terrazzino lungo alcuni metri mi consente di sedermi e di fare alcune riprese con la fotocamera. Con i piedi nel vuoto osservo il mondo intorno a me.
Tiro fuori dalla tasca laterale dei pantaloni la fotocopia della relazione che dice di traversare alcuni metri a sinistra e salire un diedro strapiombante fino ad una zona di rocce verticali. Poi traversare a sinistra e vincere le compatte placche soprastanti ricercando i punti di minor difficoltà.
Riprendo la mia scalata. Con una Dülfer prendo di petto questo diedro che strapiomba parecchio ma la fessura offre ottime prese. Mi affaccio oltre la fine dello strapiombo per scegliere le prese per il ribaltamento, e non trovo nulla di abbastanza affidabile da poter tirare, senza alcun tipo di assicurazione. Torno un attimo indietro e recupero un po' le forze. Riparto e torno oltre lo strapiombo e questa volta opto per una tacca non molto grande ma solida. Alla fine in maniera fluida e tranquilla, mi porto con tutto il corpo oltre lo strapiombo sulle placche verticali.
Sopra di me vedo un muro grigio verticalissimo, studio la parete intorno a me, cerco di caprirne la morfologia, traverso a sinistra oltrepasso uno sperone e una teoria di buchi mi porta in una zona più articolata. Seguo i punti di minor difficoltà con molta precisione, verifico la tenuta di ogni presa, non affido nulla al caso, e mi muovo rapidamente e rilassato. Ormai ho rinunciato definitivamente all’autosicura.
La parete continua ad essere estremamente verticale e non offre punti di riposo, ne un terrazzino ne una cengia degna di tale nome. Continuo ad arrampicare con estrema concentrazione, costantemente alla ricerca della linea giusta del punto debole tra il mare di placche. La qualità della roccia è migliorata ma richiede continuamente attenzione, non sono certo le placche delle Pale di San Martino o della Tofana.
Ogni tanto trovo un chiodo, che mi conforta sull’esattezza della linea che stò seguendo. Ora il sole scalda decisamente e di tanto in tanto sento un rivolo di sudore che scende dal casco. Vorrei togliermi la giacca ma diventerebbe un’operazione troppo complessa, vista la quantità di materiale che mi stò trascinando e la mancanza di un posto comodo dove compiere l’operazione di svestizione.
Ora un esile cengia traversa verso sinistra e la seguo per alcuni metri fino ad un chiodo. Da qui dovrebbero mancare ancora una cinquantina di metri di 5 e 6 grado, e poi la parete dovrebbe addolcirsi, perdere pendenza e con difficolta minori portarmi in vetta. Mi fermo un attimo, scruto verso l’alto e cerco di visualizzare i passaggi fin dove mi è possibile. Con un passaggio in strapiombo mi muovo dalla piccolo cengia e mi porto in placca verticale. Questo è il tratto con la roccia più bella e solida che abbia incontrato lungo la via. Un ultimo sforzo e mi ritrovo seduto su una cengia obliqua al termine delle difficoltà.
Mi fermo, finalmente posso togliermi il fardello dello zaino e rovistarci dentro. Estraggo il sacchetto con il cibo e una bottiglia di the e mi concedo una lunga pausa per gustarmi il momento. Osservo il vuoto sotto di me e ripercorro mentalmente la salita. Sono euforico ed entusiasta. Ancora cento metri di terzo grado che dovrebbero portarmi in vetta. Levo le scarpette d’arrampicata e indosso gli scarponcini per stare più comodo, tolgo l’imbrago e tutto il materiale inutilizzato che indosso, ripongo tutto nello zaino, rifaccio la corda e la lego esternamente allo zaino. Riparto e con passo lento mi godo questi ultimi metri che mancano alla vetta.
Vetta! È fatta. Guardo l’ora, sono le 11.30. Sono passate poco più di tre ore da quando ho attaccato la parete, "Niente male" penso dentro di me, rispetto ai preventivati due giorni di salita. Ora inizia la discesa l’inesorabile, ritorno al mondo orizzontale. Un filo di tristezza si insinua pensando che forse sarà l’ultima salita della stagione, e il lungo inverno ammanterà di neve gli amati castelli Dorati.
di Maurizio Felici, www.fiammedipietra.com
VIA SCHWARZKOPF IN SOLITARIA di Maurizio Felici
Il mese di ottobre 2012, per noi appassionati di montagna, è stato un mese a dir poco eccezionale, temperature miti e assenza di precipitazioni nevose, caldo la mattina e caldo la sera. Sono le condizioni ideali per una salita di fine stagione. Era dall’inizio dell’estate che desideravo tornare sulla parete Sud Ovest del Monte Pizzocco, sempre li in bella vista percorrendo la Val Belluna, dove 24 anni fa era stata l’ultima volta che ci avevo arrampicato.
Torno spesso al Pizzocco passando per il Biv. Palia, semplicemente per salire lungo la via Normale. 1200 metri di dislivello di sentiero e roccette, costantemente impennato lungo la massima pendenza. Un ottimo percorso per fare gamba, e una bellissima montagna da scoprire.
All’inizio dell’estate avevo proposto a qualche amico di andare a salire quella che secondo me era la linea piu elegante della parete, la via Schwarzkopf, aperta degli amici Aldo De Zordi e Oldino De Paoli nel 1988. Tra i miei compagni di cordata non avevo trovato un grande entusiasmo per andarla a ripetere, d’altronde tra le montagne che ci circondano la scelta di vie è talmente ampia che non ho mai insistito, anche perchè le alternative che mi proponevano erano altrettanto interessanti.
Il giorno sabato 19 ottobre i bollettini meteo concordano per 5 giorni di caldo e sole su tutte le Dolomiti. Ho un forte desiderio di passare qualche giorno al caldo in parete, l’ultimo scorcio d’estate prima della fine della bella stagione. Improvvisamente mi torna in mente la via Schwarzkopf al Pizzocco e senza pensarci un attimo in più decido di andarla a ripetere in solitaria fra tre giorni.
Parlo della mia idea con Luciano che mi propone il suo Grigri modificato e mi da delle ottime dritte sul suo utilizzo e su alcuni accorgimenti tecnici da utilizzare. Lo provo su una via di 6b+ a Schievenin, il sistema di autosicura funziona a dovere e permette una progressione fluida.
La giornata del 22 ottobre è meravigliosamente mite, la voglia di immergemi nella mia avventura è troppo forte. Un irrefrenabile voglia di agire mi porta ad anticipare di un giorno la partenza. Tornando a casa mi fermo nel primo supermercato che incontro, giro tra gli scaffali e rimedio un po' di cibo per i preventivati due giorni in parete.
Guardo la relazione e lo schizzo della via. La linea mi piace molto, verticale con un ardito traverso verso sinistra che vince l’enorme diedro tetto che divide in due la parete nella parte bassa. Non ne sò altro, non sò se sia mai stata salita in solitaria e non conosco nessuno che l’abbia ripetuta che me ne abbia parlato, ma è una linea che mi ha sempre affascinato e questa è l’unica cosa che mi interessa.
Il richiamo della montagna è un possente Titano che agisce in noi, una forza astratta dalle forme mutevoli che ti coinvolge nel più profondo, ti porta a fare grosse fatiche, correre enormi rischi senza una "ragionevole" motivazione, eppure il fulcro di tutto è li. Discendi nei meandri della tua coscienza, segui il filo d’Arianna che ti porta, presa dopo presa, a salire questi castelli dorati, assorto in un mistico rito di ascesi fisica, in una diversa dimensione di percezione dello spazio e del tempo, un viaggio "con" e "in" noi, come un onda lunga che ti sospinge oltre la risacca dell’io terreno, qualcosa di mistico per farla breve.
Preparo la caffettiera per l’ora della sveglia fissata alle 2,45 del mattino. Verso le ventidue sono gia nel mio letto. Sono molto rilassato e gioioso di partire e mi addormento velocemente. Mi sveglio senza fatica e pieno di energia. Da casa, in quaranta minuti raggiungo San Gregorio nelle Alpi e poi la frazione di Roncoi. Qui lascio la macchina. Sono circa le quattro del mattino ed il silenzio è totale così come il buio. Controllo il materiale nello zaino e alla luce a LED della pila frontale mi incammino lungo il sentiero che conduce al Bivacco. Vedo solo cio che illumino, nel bosco non filtra nemmeno quel poco di pallido chiarore che danno le stele, il sentiero è solcato e quindi facile da seguire. Dopo circa un ora sono al bivacco a quota 1756. E' ancora presto, l’alba dovrebbe sorgere intorno alle 7,20. Devo per forza prendermela con calma. L’ultimo tratto del percoso per giungere all’attacco della via è fuori traccia su roccette e canalini friabili. Impossibile farlo al buio!
Mi porto lentamente verso la dorsale dove termina il sentiero ed attendo le prime luci. L’alchimia dell’alba magicamente da vita alle forme e il buio piatto concede allo sguardo la prospettiva. Mi avvio verso la parete, scendendo il canale che diviene via via sempre piu ripido e termina in un roccioso e sassoso colatoio della parete. Scendo nel fondo, mi abbasso su roccette per un centinaio di metri e ricomincio a traversare un po' camminando e un po' arrampicando. Intravedo sopra di me l’enorme stapiombo giallo posto all’attacco della via.
Ancora pochi metri d’arrampicata tra roccette ed erba ed eccomi all’attacco. Scruto la parete aggettante, alla mia sinistra il grande strapiombo, a destra una serie di placche interrotte da piccoli tetti formati da stratificazioni oblique. Preparo con cura tutto il materiale per la progressione in autosicura, faccio qualche allungamento per preparare le articolazioni alla salita, lego lo zaino alla fine della corda. Il tutto con estrema calma e concentrazione. Decido di rinunciare all’autosicura per questo primo tiro. Salgo i primi metri facili ma delicati per la scarsa qualità della roccia e per l’umidità, sono sotto il tetto che dovrebbe opporre difficoltà di 5+. Da sotto non è facilmente intuibile quale sia il punto debole per superarlo. Vado un po' a destra e un po' a sinistra, finalmente mi decido prendo una presa rovescia alzo i piedi e mi allungo oltre il tetto alla ricerca di una buona e solida presa.
Una bella tacca compatta mi da fiducia e mi permette di ribaltarmi sulla placca sovrastante. Traverso alcuni metri a sinista su roccia buona, supero un altro piccolo strapiombo e proseguo su terreno piu facile ma di roccia decisamente scadente. Scelgo attentamente la linea da seguire evitando con perizia le numerose scaglie di roccia marcia. "Mi sto divertendo" penso dentro di me! Dopo i primi metri nei quali ricercavo l’equilibrio psicofisico e le giuste sensazioni, mi sento concentrato e la montagna mi è amica. Non tira vento, e nonostante siano le prime ore del mattino la temperatura è mite. Mi fermo sul primo terrazzino che incontro per provare a recuperare lo zaino attaccato alla fine della corda. Viene su a scatti e faccio molta fatica e quando finalmente riesco a recuperarlo mi accorgo che è stracciato… noooo!
Capisco subito che recuperarlo è uno sforzo inutile, perciò decido di infilarmelo in spalla e proseguire così. Nonostante il peso dello zaino e dei materiali, la progressione mi pare comunque fluida, non sento di fare particolare fatica nell’arrampicare. Ora la roccia è molto articolata e consente di evitare le zone friabili. Per placche di buona roccia in poco tempo mi ritrovo sotto il tiro chiave, 3 passi di A1 o 8°-. Scruto lo strapiombo biancastro che traversa a sinistra verso una zona di placche di roccia molto compatta e verticale. Devo decidere come proseguire; faccio alcune brevi riflessioni e scelgo la progressione senza l’autosicura, con la corda lasciata nel vuoto e attaccata all’imbracatura, per distribuire nel modo più ottimale i carichi che porto con me, e di utilizzare solo due longe per assicurarmi ai chiodi piu prossimi.
Molto concentrato comincio a traversare e dopo i primi metri inizio ad alzarmi. Incontro un primo chiodo a pressione. Il suo aspetto non è molto rassicurante, é praticamente sfogliato, e non lo prendo nemmeno in considerazione. Stringo due buone tacche e mi allungo con la mano destra ad un buco verticale con il bordo fragile ma ottimo all’interno. Raggiungo il secondo chiodo a pressione, lo osservo, lo testo con un rinvio e decido di utilizzarlo per la longe. Faccio una spaccata a sinistra, prendo un verticale di sinistro e incrocio di destro ad una tacca di cui non posso verificare la solidità… Nella relazione della via si parlava di roccia ottima, e dentro di me penso "beh, tutta questa buona roccia non la vedo sinceramente." Ma ho margine e quindi mi muovo con molta calma. Vedo la protezione successiva, una fessura orizzontale con un chiodo a lama arancione. Si muove sia destra che a sinistra, ma vista la sua leva, ben caricato verso il basso, offre ottime garanzie di tenuta per un resting che mi serve per rimuovere la longe ed il rinvio sul chiodo a pressione.
Mi rilasso un attimo in questa posizione appeso al chiodo. Sotto di me il vuoto. Osservo il resto del traverso, non sembra difficilissimo ma pur sempre strapiombante e su roccia non buona. Due metri a sinistra vedo un chiodo in un diedrino. Mi allungo per verificarlo, ma niente da fare, è pessimo, e con uno strattone uscirebbe certamente. Decido così di lasciar perdere la longe e di proseguire slegato. Testo molto attentamente ogni appiglio e così anche per gli appoggi. Con molta calma e delicatamente traverso fino ad arrivare sulla roccia solida. Traverso ancora con un arrampicata non facile, ma fortunatamente su qualcosa di solido. Alla fine del traverso uno stretto terrazzino lungo alcuni metri mi consente di sedermi e di fare alcune riprese con la fotocamera. Con i piedi nel vuoto osservo il mondo intorno a me.
Tiro fuori dalla tasca laterale dei pantaloni la fotocopia della relazione che dice di traversare alcuni metri a sinistra e salire un diedro strapiombante fino ad una zona di rocce verticali. Poi traversare a sinistra e vincere le compatte placche soprastanti ricercando i punti di minor difficoltà.
Riprendo la mia scalata. Con una Dülfer prendo di petto questo diedro che strapiomba parecchio ma la fessura offre ottime prese. Mi affaccio oltre la fine dello strapiombo per scegliere le prese per il ribaltamento, e non trovo nulla di abbastanza affidabile da poter tirare, senza alcun tipo di assicurazione. Torno un attimo indietro e recupero un po' le forze. Riparto e torno oltre lo strapiombo e questa volta opto per una tacca non molto grande ma solida. Alla fine in maniera fluida e tranquilla, mi porto con tutto il corpo oltre lo strapiombo sulle placche verticali.
Sopra di me vedo un muro grigio verticalissimo, studio la parete intorno a me, cerco di caprirne la morfologia, traverso a sinistra oltrepasso uno sperone e una teoria di buchi mi porta in una zona più articolata. Seguo i punti di minor difficoltà con molta precisione, verifico la tenuta di ogni presa, non affido nulla al caso, e mi muovo rapidamente e rilassato. Ormai ho rinunciato definitivamente all’autosicura.
La parete continua ad essere estremamente verticale e non offre punti di riposo, ne un terrazzino ne una cengia degna di tale nome. Continuo ad arrampicare con estrema concentrazione, costantemente alla ricerca della linea giusta del punto debole tra il mare di placche. La qualità della roccia è migliorata ma richiede continuamente attenzione, non sono certo le placche delle Pale di San Martino o della Tofana.
Ogni tanto trovo un chiodo, che mi conforta sull’esattezza della linea che stò seguendo. Ora il sole scalda decisamente e di tanto in tanto sento un rivolo di sudore che scende dal casco. Vorrei togliermi la giacca ma diventerebbe un’operazione troppo complessa, vista la quantità di materiale che mi stò trascinando e la mancanza di un posto comodo dove compiere l’operazione di svestizione.
Ora un esile cengia traversa verso sinistra e la seguo per alcuni metri fino ad un chiodo. Da qui dovrebbero mancare ancora una cinquantina di metri di 5 e 6 grado, e poi la parete dovrebbe addolcirsi, perdere pendenza e con difficolta minori portarmi in vetta. Mi fermo un attimo, scruto verso l’alto e cerco di visualizzare i passaggi fin dove mi è possibile. Con un passaggio in strapiombo mi muovo dalla piccolo cengia e mi porto in placca verticale. Questo è il tratto con la roccia più bella e solida che abbia incontrato lungo la via. Un ultimo sforzo e mi ritrovo seduto su una cengia obliqua al termine delle difficoltà.
Mi fermo, finalmente posso togliermi il fardello dello zaino e rovistarci dentro. Estraggo il sacchetto con il cibo e una bottiglia di the e mi concedo una lunga pausa per gustarmi il momento. Osservo il vuoto sotto di me e ripercorro mentalmente la salita. Sono euforico ed entusiasta. Ancora cento metri di terzo grado che dovrebbero portarmi in vetta. Levo le scarpette d’arrampicata e indosso gli scarponcini per stare più comodo, tolgo l’imbrago e tutto il materiale inutilizzato che indosso, ripongo tutto nello zaino, rifaccio la corda e la lego esternamente allo zaino. Riparto e con passo lento mi godo questi ultimi metri che mancano alla vetta.
Vetta! È fatta. Guardo l’ora, sono le 11.30. Sono passate poco più di tre ore da quando ho attaccato la parete, "Niente male" penso dentro di me, rispetto ai preventivati due giorni di salita. Ora inizia la discesa l’inesorabile, ritorno al mondo orizzontale. Un filo di tristezza si insinua pensando che forse sarà l’ultima salita della stagione, e il lungo inverno ammanterà di neve gli amati castelli Dorati.
di Maurizio Felici, www.fiammedipietra.com
Note:
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