Massimo Piras e la passione senza tempo per le cascate di ghiaccio
Massimo Piras è quel che più di vicino c'è ai folletti dei boschi. Quegli spiriti buoni che indicano la giusta direzione ai viandanti nella notte delle fiabe per bambini. Il suo sguardo calmo e gentile mi sorride mentre parla. Durante gli ultimi trent'anni ha aperto più di cento cascate e quando gli chiedo "Tu chi sei?" lui mi risponde: "Un operaio". Massimo è un accademico del Club Alpino Italiano ed uno dei più grandi ed attivi ghiacciatori di sempre. "Hai mai smesso di scalare?" gli chiedo, "Non ho saltato neanche una stagione, da quando 35 anni fa il motore della mia moto si fuse ed anziché comprarne una nuova presi in mano picche e ramponi per iniziare a scalare il ghiaccio verticale".
Massimo, che oggi non è più quel ragazzo che scalava con una picca dal manico di legno, è la più alta espressione di quello che mi piace chiamare "passato progressivo". Non di certo nel significato grammaticale ma nel suo senso più vero, cioè un passato permeato di grande esperienza accumulata negli anni che con intelligenza illumina il sentiero dei giovani, indicando nuovi spazi dentro ai quali muoversi. Come ad esempio il dry tooling che Massimo insegna alla Scuola Gervasutti di Torino. Gli chiedo cosa cerca di trasmettere ai giovani che lo ascoltano nella sede del Monte dei Cappuccini durante le sue lezioni: " A guardare" mi risponde con un sorriso, "Perché osservare con attenzione una progressione fluida ed estetica è il miglior modo per imparare ad emularla. Questo vale soprattutto per una cascata di ghiaccio e ancora più su un tiro di misto o di dry, dove bisogna avere una sensibilità speciale con il proprio corpo e con le picche, per poter sentire salda la minuscola punta di acciaio nelle pieghe della parete".
La calma che traspira dai suoi gesti e dalle sue parole non è mai interrotta nemmeno quando mi racconta delle scalate in solitaria. Massimo ferma la mia attenzione su un aspetto al quale tiene in modo particolare: a non confondere cioè, l'auto assicurazione, l'andare slegato ma con l'imbrago e la corda nello zaino che in caso di emergenza ti possono tirare fuori dai guai e il free solo. Scalate, a volte affrontate perché proprio non c’era nessuno con cui legarsi all’altro capo della corda ma spesso, consapevolmente intraprese per ampliare uno spettro di conoscenza introspettivo e per misurarsi con la montagna da pari a pari. Ghiaccio e roccia che attraverso gli occhi di un uomo buono tornano ad essere quegli aspri e belli elementi che erano per gli alpinisti degli albori. "Quella che era l’esplorazione di venticinque anni fa, oggi è molto difficile da rivivere. Forse addirittura impossibile. In quegli anni era una sfida continua e ce le rubavamo a vicenda le cascate quando si formavano. Se mi chiedevano com’erano le condizioni di una cascata, facevo il vago e non lo sapevo mai, anche se stavo andando a salirla. Il senso di avventura, almeno sul ghiaccio dove tutte le formazioni di una certa importanza sono ormai conosciute è finito". Ecco che l’attenzione si sposta sulla roccia e sulla pratica del dry.
Chi meglio di lui mi può spiegare perché si scala il ghiaccio. Cosa spinge l’alpinista a confrontarsi con strutture al limite della delicatezza e dell’instabilità? "Perché si entra nel grande reame di quello che oggi c’è e di quello che domani potrebbe non esserci già più. Perché scalare il ghiaccio non è come andare in falesia dove la roccia è sempre lì e non è mai diversa. Come può, poi, non piacere la purezza di una linea verticale di ghiaccio blu che esce nitida tra le rocce e colpisce l’occhio e la fantasia di uno scalatore?"
Edoardo ringrazia Mauro Marcolin e Wild Climb per il sostegno dei propri materiali.
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