Everest 2003, dal Campo base del Golden jubilee
Corrispondenza dal Campo base sud dell'Everest. Manuel Lugli tra uomini, sentimenti, fatti e cronaca della montagna più alta.
Abbiamo chiesto a Manuel Lugli, presente al Campo base del versante nepalese dell'Everest in veste di capo spedizione della Everest Speed Expedition, di essere il "nostro inviato" in occasione del Golden Jubilee della montagna più alta. Ecco la prima puntata. Alla scoperta di: uomini, sentimenti, fatti e cronaca dal più affollato villaggio-campo base che memoria ricordi... EVEREST GOLDEN JUBILEEi Campo base Everest - Nepal, 25 aprile 2003 di Manuel Lugli Luci Lo spettacolo luminoso della sera è stupefacente, sia sopra le nostre teste che sotto. Sopra, le stelle, visibili a migliaia come in città non è più possibile. Danno i brividi: la costellazione del Cigno, la Chioma di Berenice, la Via Lattea, nette e pulite come da un telescopio. Sotto di noi, sul ghiacciaio dell'Everest che lentamente digrada verso sudovest, le luci delle tende delle spedizioni, a centinaia, che costellano il campo base. Mai come quest'anno, nell'anno del Golden Jubilee, il campo è abitato da alpinisti, aspiranti tali, trekkers, sherpa, giornalisti e cameramen. 30 spedizioni su 23 permessi, oltre 20 paesi presenti. Insomma tutto come da previsioni. Questa mattina verso le 5.30, dal nostro campo - che è quello più vicino all'attacco dell'Icefall - li ho sentiti passare. Per un'ora buona la colonna non ha smesso di transitare, tra tintinnii di moschettoni e colpi di tosse. Ho messo la testa fuori dalla tenda e ne ho contati 67, tutti insieme che si avviavano lungo i magnifici seracchi dell'Icefall. Tutta questa gente vuol dire anche qualche rischio in più, ovviamente. E così, qualche giorno fa, una scaletta ha ceduto - o meglio il seracco su cui era appoggiata. Risultato: uno sherpa all'ospedale con bacino rotto, e tutti gli altri a pensare a chi toccherà la prossima volta. Le luci però continuano ad essere tra le più belle che abbia mai visto con le vette del Nuptse e del Pumori appena spazzate dal sole e dal vento.
Bruno R. è un americano di Calabria, 51 anni, un accento da Padrino, e la classica storia italo-americana di successo alle spalle. E' all'Everest per il secondo anno consecutivo. L'anno scorso era qui con il figlio, che ha raggiunto la cima; lui non ce l'ha fatta e così ha deciso di ritornare. Non perché senta il sacro fuoco dell'alpinismo. Anzi spera che tutto si risolva prima possibile. "I am not a mountaineer!" chiosa. Al campo si stufa da morire ed ha un sacco di businness da seguire a casa. Il fatto è che lui ed il figlio vogliono diventare la prima coppia padre-figlio a fare i Seven Summits, ed ormai non gli manca molto: il Vinson, e forse l'Elbrus. L'idea è nata due-tre anni fa, subito dopo la loro salita del Kilimanjaro. Così, tornati in USA, i due pensano subito al McKinley. La guida che contattano in Alaska gli chiede quale esperienza abbiano, e loro rispondono: "Il Kilimanjaro". Se hanno l'attrezzatura alpinistica, e loro rispondono: "No". Se hanno una carta di credito: "Ma certo!", assicurano padre e figlio. "OK, potete venire!", risponde felice la guida alaskana. Incontri Il bello dei campi himalayani è che incontri anche amici. Alcuni nuovi, ma che ti sembra di conoscere da sempre, tanto sono affabili e simpatici. Come Patrick Gabarrou, qui all'Everest insieme alla spedizione promossa dalla rivista francese Vertical. E' un team numeroso, 22-23 persone, diretto da Jean Michel Asselin e che vede tra i membri anche Patrick Berhault. Sembra ci siano due squadre all'interno, una più esperta, l'altra meno; sono un po', come dire, "sfilacciati". Sono distribuiti tra campo base, campo 1 e campo 2, come la maggior parte dei team presenti, cercano anche loro l'acclimatazione giusta, lo spirito giusto, e la benevolenza del Sagarmatha, la Dea Madre della Terra. Altri, amici lo sono da tempo, come Fausto De Stefani con cui chiacchieriamo per un pomeriggio sul senso di questo tipo di alpinismo e di come, da sempre, strida con la vita reale dei nepalesi. Per fortuna c'è gente come Fausto, che ci mostra le foto della Scuola che, con la ONLUS "Fondazione Senza Frontiere" (www.senzafrontiere.it - tenuapol@tin.it) è riuscito a costruire a Kirthipur, pochi chilometri fuori da Kathmandu. Tre piani di aule, un refettorio e persino un'aula per meditazione e yoga; è quella che noi chiameremmo una scuola elementare, destinata però a chi non ha i mezzi per accedere alle sempre più numerose - e costose - scuole private di Kathmandu. E' per questo che parallelamente la Fondazione ha istituito un programma di adozione a distanza, severamente controllato e monitorato. Inaugurazione il 25 maggio, speriamo di poter essere anche noi alla festa del quindicesimo ottomila di Fausto. Tempesta di cervelli Riunione al vertice ieri nella tenda (im)mensa della spedizione militare indo-nepalese. Presentazioni ufficiali in puro stile militare anglo-indiano, the e pasticcini. Surreale. Ordine del giorno: situazione corde fisse sulla montagna. L'ufficiale in carico della relazione descrive con precisione ed orgoglio il lavoro svolto. Corde fisse sull'Icefall: "Fissate, Signore!". Corde fisse tra campo 1 e campo 2: "Fissate, Signore!". Corde fisse tra campo 2 e campo 3: "Fissate, Signore!". Corde fisse tra campo 3 e Colle Sud: "Fissate con qualche problema, Signore". Si perché qui il terreno si fa un po' ripido 40-45° gradi e ti fa capire che conoscere la basi dell'alpinismo, oltre che sapersi tirare come disgaggiatori sulle corde, non farebbe niente male. Anche perché sapersi muovere da alpinisti, eviterebbe di tirarsi in testa pezzi di ghiaccio blu - la neve è poca - a velocità da proiettile. Ma non si può mica pretendere che qui in giro siano tutti così esperti. Per cui niente problemi, basta fissare una linea per la salita ed una per la discesa. Ora (alla spedizione militare) resta solo il problema di fissare le corde dal Colle Sud alla vetta, perché: "Non vogliamo mica fare come nel 2001" - tuona indignato l'ufficiale indiano - "quando siamo arrivati a 8.300 metri, sono finite le corde fisse e c'è toccato tornare indietro con le pive nel sacco". E noi ingenui che credevamo ancora che per un alpinista le corde fisse fossero solo uno strumento di sicurezza accessorio, soprattutto per la discesa, quando cotto dalla fatica e dall'ipossia le corde ti guidano di nuovo verso la vita. Mah. Allora: signori, una mano sul cuore ed una al portafoglio, per attrezzare servono ancora 10 sherpa, 1500 metri di corda, 40 corpi morti, 10 chiodi da ghiaccio, 20 bombole di ossigeno e 10 maschere con regolatore. Gira tra i leaders delle spedizioni presenti - 13 su 33 teams - il libro delle offerte. Fate il vostro gioco signori, rien ne va plus. di Manuel Lugli
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