Coffee Break #22 - Di un alpinismo normale
Perché un alpinismo normale esiste. Al di là di linguaggi che ne gonfiano eroismi e sacrifici. Oltre a termini e racconti che fanno apparire retorico anche quanto non lo è mai stato. Non sono qui per fare un ragionamento analitico e storico. Mi tornano alle mente delle schegge di pensieri.
Nel 1901 Dimai, Siorpaes e Verzi percorrono con le baronesse Ilona e Rolanda Eötvös la parete sud della Tofana di Rozes. Ripetendo la via, non potrete fare a meno di farvi venire in mente i volti di Ilona e Rolanda. Più che due alpiniste, sembrano due popolane non troppo raffinate. Capello appena meno che trascurato. Dentatura sicuramente da sistemare. Nessun abito tecnico. Non penso proprio si siano appese alla corda nei passi chiave, né che si siano fatte portare al guinzaglio lungo la traversata dell’anfiteatro. Non credo abbiano piagnucolato dalla paura lungo il traverso esposto, né che si siano sentite delle alpiniste modello vedendo tutta quell’aria sotto i piedi. Sinceramente non mi sembra neanche di notare dei fisici superiori, delle attitudini particolari e imprendibili.
Uno dei primi libri di memorie alpinistiche che ho letto è stato quello che raccoglie gli scritti di Christian Klucker. Non si tira indietro dal parlare di “assalto della vetta”, non si esime dal definire il tempo “cattivo”. Non evita vibranti entusiasmi nelle descrizioni. Né la meraviglia di fronte ad ambienti grandiosi o condizioni meravigliose. Eppure il suo discorrere è talmente quotidiano da essere talvolta al limite del noioso. Un sali e scendi dalle vette. Tra crepacci. Scariche di sassi. Sveglie energiche date a compagni pigri che non riescono a uscire dal letto prima delle quattro del mattino. Altre guide per nulla piacevoli. E clienti pretenziosi. Ma è tutto estremamente ordinario.
Gino Soldà legge una linea controversa, compressa e intensa sulla Moiazza. Deve esser salito come un gatto. Ne avrà avute di storie da raccontare i giorni dopo! Eppure parlando con il figlio Manlio non si ricava molto di più che un «Papà era forte ad andare in montagna». Nessun aneddoto tragico o esaltazione mistificatoria.
Potrei continuare con gli esempi, ma rischierebbe di diventare un elenco fastidioso.
Oggi, al Bar Sport delle falesie, sento chiacchierare in continuazione di modi giusti e sbagliati per andare in montagna. Di materiali all’ultimo grido. Di scarpette dal grip impensato. Di gradi da riuscire a liberare per poi affrontare le vie in ambiente.
In furgoni allestiti come bilocali pronti a servire qualsiasi bisogno di comodità si blatera di quel monodito da tenere per un attimo per passare. Di fessure strapiombanti e traversi senza ritorno. Si ammirano i selfie dell’attacco della via, con sospiri d’approvazione, pregustando le foto delle mani scorticate tipiche di ogni vetta che si rispetti. Si adora il culto di una montagna accessibile al gruppo degli eletti che sanno, conoscono, sono in grado di affrontare le avverse condizioni che la parete impone. Si parla, ci si racconta. E poi si ricomincia da capo. Quella volta lì, ...
Per cortesia, torniamo ad “andar su”. Magari per la via più facile. Guardiamo ai punti deboli, alla logicità. Gettiamoci alle spalle un po’ di enfasi. Percorriamo. Scopriamo. Perché, come dice Guido Rey, una ragione più forte urge a salire. E un alpinismo normale esiste.
Ad Angelo e Cristina, agosto 2016.
di Daniela Zangrando
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