Alpinismo, tra vie nuove e plaisir, in Khumbu
Il report di Enrico Bonino sui suoi tre mesi di viaggio e alpinismo nella Valle del Khumbu (Nepal) tra nuove salite, trekking e ripetizioni.
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The Phantom of the Opera - Kajo Ri 6189m - Khumbu, Nepal
arch. E. Bonino
Nel dicembre 2009 Enrico Bonino e Nicolas Melis hanno aperto due vie nuove nella Valle del Khumbu (Nepal): 'The Phantom of the Opera' (800m, ED+, WI4+, M6+, 6b/A1, A2, V) sul Kajo Ri 6189m e 'M’han dato 5 al modulo di misto...' (600m, ED-, WI6, M7, A2, X, IV) sulla Punta Khanchha 5850m. Le due vie si aggiungono a Ramri Keti (1100m, ED, WI5+, M7, 5a, V) sull'Hama Yonjuma 5970m aperta dalle due guide valdostane insieme a Francesco Cantù.
NON SOLO 8000…. viaggio nel Khumbu tra montagne inesplorate, vie nuove e alpinismo plaisir
di Enrico Bonino
Con Marc Delmas, Anne Munchenbach (due clienti con i quali ormai stringiamo un legame di amicizia), Nicolas Meli (amico, collega e compagno di scalate) e Francesco Cantù (amico e medico alpinista) abbiamo deciso di partire insieme per questa nuova esperienza che si svolgerà durante tre mesi di permanenza in Nepal. Marc e Anne saranno i primi a seguirmi nel percorso che ci porterà a scalare due montagne... e mezza! In realtà, un giorno Marc mi contatta per avere un parere sulla sua recente decisione di scalare l’Everest. Rispostogli che a mio avviso non aveva l’esperienza necessaria per portare a termine questo progetto, gli propongo l’alternativa dell’Ama Dablam, che poteva essere il primo passo verso una montagna di 8000m. Due settimane dopo, il 27 settembre, prendevamo l’aereo da Milano e ci dirigevamo verso il Paese montagnoso per eccellenza: il Nepal. Anne ci raggiungerà in seguito.
Un’agenzia locale ci fornirà il supporto logistico durante il trekking garantendoci due portatori ed una guida che ci aiuteranno a portare il materiale e ci faranno da interfaccia con la popolazione locale. Il nostro percorso comincerà da Lukla, piccolo villaggio tra colline e giganti che “ospita” un aeroporto abbastanza singolare dove piccoli aerei fanno da taxi provenendo da Khatmandu. Il Khumbu ha un sistema di tre vallate parallele orientate da N a S collegate tra loro dal Renjo Pass e dal Cho La Pass, ambedue a quasi 5400m di quota. Noi seguiremo quella centrale che ci farà acclimatare in modo appropriato ma senza stancarci troppo, e ci porterà a visitare i laghi di Gokyo. Pochi turisti si spingono fino al quinto lago, dal quale si gode di una vista unica sul Cho Oyu, il Gyachung Khan e sui versanti di montagne minori che da altrove non si possono ammirare. Il programma prevede la salita di acclimatamento alla spalla del Monte Lobuche 6020m.
Il tempo non ci accompagna, il Monsone è in ritardo e piove quasi tutti i giorni. Scavalchiamo il Cho La Pass e ci portiamo al campo base di questa estetica montagna, dove vi rimaniamo per due giorni chiusi in tenda sotto la pioggia battente. Il terzo, decidiamo di tentare il tutto per tutto e saliamo al Campo alto a circa 5300m. Passiamo la notte a battere il telo della tenda per non essere schiacciati dal peso della neve che cade, già pensando di smontare tutto e a scendere al Base. Ma… sorpresa, sorpresa! all’ora della sveglia qualche stella fa capolino tra le nuvole e ci decidiamo a partire. Inutile dire che eravamo “soli al mondo”.
La salita al Lobuche si svolge in gran parte su uno sperone di neve non pericoloso per le slavine. Solo la parte alta mi lasciava da pensare. Ma man mano che salivamo valutavamo che le condizioni non fossero pericolose. Siamo arrivati in cima: il cielo si è aperto pochi minuti, giusto per lasciarci ammirare il mondo dall’alto, per poi richiudersi e ricominciare a nevicare. In discesa la cresta di neve spariva tra le nuvole che ne celavano la fine. Poche ore dopo siamo al campo base a bere Chiya e a pensare ai bei momenti passati lassù. Fino ad allora non avevamo potuto ammirare molto del panorama a causa del tempo inclemente. Ma il giorno successivo, come per magia, ogni nuvola era sparita lasciando il posto al Sole caldo, al cielo blu e a “montagne di neve”!
Lo spettacolo era grandioso ma le prospettive per la salita all’Ama Dablam non erano delle più rosee. Tutta quella neve non si sarebbe certamente assestata in pochi giorni. Arrivati al campo base della “montagna più bella del mondo” facciamo amicizia con le poche cordate che si trovano lì come noi e si instaura subito un clima di grande cooperazione per l’attrezzatura della via di salita. Siccome fino a quel momento, per ovvi motivi, nessuno era ancora salito in vetta, aiutiamo le altre spedizioni a posizionare le corde fino a Campo 3. Arrivati a quel punto decido che le condizioni sono troppo pericolose per continuare la salita, e spiego a Marc che data la situazione è meglio scendere. Non abbiamo raggiunto la cima, ma il tramonto visto dai primi due campi ha ripagato certamente tutti i nostri sforzi e ci fa rientrare a valle sereni. Per le successive due settimane nessua cordata salirà la montagna.
Tornati a Khathmandu il 20 ottobre, Anne e Marc si danno il cambio e con lei ci dirigiamo alla volta del Nireka Peak. Arrivati a Lukla, risaliamo questa volta la valle più a Ovest, quella meno frequentata delle tre, che ci porterà sempre a Gokyo ma questa volta scavalcando il Renjo Pass. Al villaggio di Thame incontriamo dei ragazzi italiani che stanno aiutando la popolazione locale a ristrutturare due scuole cosicchè i bimbi possano seguire le lezioni in un ambiente più adeguato e caldo (siamo a 3800m!). Il Nireka raggiunge quasi i 6200m di quota ed è una montagna quasi sconosciuta anche alla popolazione locale perchè non è mai visibile dai villaggi. Quando la si vede, i grandi seracchi che caratterizzano il versante Sud invogliano solo la fotografia, ma non la salita. In realtà si cela una via di salita elegante, priva di pericoli oggettivi e tecnica ma non troppo. Di sicuro si puo’ apprezzare l’ambiente estremamente selvaggio. Mentre il Lobuche lo conoscevo perchè l’ho salito l’anno scorso, il Nireka era per me una totale incognita. Sapevo che era stato aperto al pubblico qualche anno fa e che non era una montagna estrema, ma la mancanza di notizie repertoriate faceva sì che Anne ed io andassimo alla totale scoperta. Il campo base si trova salendo verso il Cho La Pass a pochi minuti dalla folla ma nel posto più selvaggio della Terra, a circa 5000m di quota. Anche dal campo base non si riesce a vedere la montagna che andremo a scalare.
Solo il giorno successivo, dopo aver fatto un po’ di scuola di ghiaccio sulla lingua terminale del ghiacciaio, potremo finalmente scorgere le forme di questa bellissima vetta snobbata o sconosciuta ai più. A partire dal campo base siamo nuovamente in totale autonomia, e andiamo a posizionare il campo alto alla base della cresta SW, sul pianoro del Cho la Col 5550m. Il sole, spostandosi da Est a Ovest, ci passa sopra la testa dando spettacoli di ombre e luci sulla miriade di montagne visibili. Ma il freddo ci costringe a entrare ben presto nella tenda e a cucinare vivande calde. La salita alla cima si dimostra varia e spettacolare, tra pendii, creste aeree, pianori e seracchi innocui da aggirare. La vetta affilata ci obbliga quasi a sederci a cavallo. Siamo nuovamente soli ad ammirare il panorama, nessun rumore, nessuna distrazione se non il silenzio del vento. Un abbraccio e qualche foto poi, come succede sempre in questa strana attività, si sale per poi scendere, il perchè non tutti riescono ad apprezzarlo…
Il nostro percorso procede lungo la terza valle, quella più frequentata dal turismo perchè conduce al campo base dell’Everest. E nel giro di pochi giorni saremo di nuovo a Khatmandu a mangiare bistecche… Qui entrano in scena Nicolas e Francesco con i quali in otto giorni dalla partenza, saremo protagonisti della prima salita di “Ramri Keti” (1100m, ED, WI5+, M7, 5a, V) sull' Hama Jomjuma (vedi articolo planetmountain). Scesi a Namche Bazar per riposarci e riossigenare il sangue, risaliamo a Gokyo (eh sì... ormai anche i sassi si stupiscono di vedermi passare per la terza volta in 2 mesi!) dove il gruppo si separa. Francesco deve rientrare in Italia e proseguirà da solo. Nicolas ed io rimaniamo ancora 25 giorni con l’obiettivo di salire una via nuova su una vetta di 7000m, vicino al Cho Oyu. Purtroppo le cose non vanno sempre come vorremmo e problemi di logistica non ci permettono di raggiungerne il campo base. Per certo non rifacciamo i bagagli e non torniamo a casa ma ci guardiamo intorno e decidiamo di dirigerci verso il Dawa Peak, cima caratteristica per la forma a piramide. L’anno scorso, con Stefano della Gasperina, avevo cominciato a salire una via nuova sui contrafforti che collegano il Dawa Peak al Renjo Pass. In quell’occasione, non siamo arrivati in cima a causa di un mio malessere che ci ha costretti alla ritirata dopo circa 250m. Freschi della via all’Hama Yomjuma ci sentivamo in forma e decidiamo di completare la via. E' il primo dicembre. Khanchhya, il nostro super portatore, ci aiuta a portare il materiale alla base del ghiacciaio dove passeremo una notte in tenda. Il mattino dopo attacchiamo la via che, dopo la sezione già conosciuta, si rivela molto più dura del previsto, presentando una serie di candele di ghiaccio stile cascata, ognuna chiusa da un tetto di roccia che ne sbarra l’uscita. A quelle quote, difficoltà è sinonimo di tempo e non di velocità. Arriviamo in cima alle ultime luci e buona parte della discesa sarà effettuata la sera, illuminati dalla Luna quasi piena. Per fortuna la linea della goulotte è rettilinea, e non ci ha posto problemi nell’attrezzare le soste per la discesa. Unico intoppo, la rottura della testa di una piccozza mentre piantavamo l’ultimo chiodo… che ci causerà non pochi problemi nei giorni a venire. Chiameremo la cima 5850m con il nome del nostro portatore: Punta Khanchhya. Mentre la via l'abbiamo chiamata: “M’han dato 5 al modulo di misto” (600m, ED-, WI6, M7, A2, X, IV).
Ci rimangono ancora circa quindici giorni da passare nel Khumbu, cominciamo ad essere stanchi ma con tanta voglia di scoprire e di scalare. Un’opzione possibile e` la via degli inglesi al Cholatse, una cresta di neve meravigliosa su una montagna imponente ed isolata. Ma dopo aver aperto due vie su due cime mai salite, nel nostro inconscio c’era il desiderio di fare tris. Appena Nik si è messo a parlare della parete Nord del Kajo Ri che avevamo visto risalendo la valle, non c’è stato bisogno di dire altro per decidere quale sarebbe stato il nostro prossimo obiettivo. Dopo un primo tentativo fallito a causa dell’ulteriore rottura della piccozza danneggiata in precedenza, e di un’altra, un po’ demoralizzati, eravamo quasi tentati di andare a spassarcela con gli elefanti nel parco di Chitwan. Poi, un po’ stile MacGyver abbiamo riparato gli attrezzi con del fil di ferro e nastro americano e siamo partiti per un secondo tentativo, evitando però il grande seracco pensile e passando su una barra rocciosa alla sua destra che ci impegnerà a fondo per una giornata intera. I sacchi pesanti e le alte difficoltà non permettono una progressione veloce e, come previsto, ci fermiamo a bivaccare sul ghiacciaio mediano. Speravamo di poter montare una tendina, invece abbiamo dormito sotto le stelle tra ghiaccio e roccia. La seconda parte della salita, solca una parete fondamentalmente rocciosa disegnata (quest’anno) da poche linnee di neve compattata dal vento. Esausti dal giorno prima e dalle precedenti salite, decidiamo di percorrere la goulotte più logica e facile che ci porterà a sbucare in cresta a circa 120m dalla cima. Visto quanto poco materiale ci è rimasto per la discesa decidiamo di terminare la via lì e di cominciare ad attrezzare le soste per le calate. Dormiremo una seconda notte nel nostro “hotel 5 stelle” sul ghiacciaio. Il mattino dopo raggiungiamo i nostri portatori nel lodge di Machermo. Secondo i local vi sono stati molti tentativi ma nessuno aveva salito interamente la parete prima di quel giorno. La via si chiamerà: 'The Phantom of the Opera' (800m, ED+, WI4+, M6+, 6b/A1, A2, V).
Purtroppo, o finalmente, si rientra nel delirio di Khatmandu: è ora di tornare a casa. Questo splendido viaggio ci ha portato tanta esperienza e sicuramente ci lascerà dei bei ricordi. Con Marc e Anne abbiamo in progetto di salire il Mackinley tra due anni, Nicolas ed io torneremo nella regione del Khumbu l’anno prossimo per esplorare altre cime ignorate dalla massa che però, a quanto pare, regalano belle emozioni.
Enrico Bonino
NON SOLO 8000…. viaggio nel Khumbu tra montagne inesplorate, vie nuove e alpinismo plaisir
di Enrico Bonino
Con Marc Delmas, Anne Munchenbach (due clienti con i quali ormai stringiamo un legame di amicizia), Nicolas Meli (amico, collega e compagno di scalate) e Francesco Cantù (amico e medico alpinista) abbiamo deciso di partire insieme per questa nuova esperienza che si svolgerà durante tre mesi di permanenza in Nepal. Marc e Anne saranno i primi a seguirmi nel percorso che ci porterà a scalare due montagne... e mezza! In realtà, un giorno Marc mi contatta per avere un parere sulla sua recente decisione di scalare l’Everest. Rispostogli che a mio avviso non aveva l’esperienza necessaria per portare a termine questo progetto, gli propongo l’alternativa dell’Ama Dablam, che poteva essere il primo passo verso una montagna di 8000m. Due settimane dopo, il 27 settembre, prendevamo l’aereo da Milano e ci dirigevamo verso il Paese montagnoso per eccellenza: il Nepal. Anne ci raggiungerà in seguito.
Un’agenzia locale ci fornirà il supporto logistico durante il trekking garantendoci due portatori ed una guida che ci aiuteranno a portare il materiale e ci faranno da interfaccia con la popolazione locale. Il nostro percorso comincerà da Lukla, piccolo villaggio tra colline e giganti che “ospita” un aeroporto abbastanza singolare dove piccoli aerei fanno da taxi provenendo da Khatmandu. Il Khumbu ha un sistema di tre vallate parallele orientate da N a S collegate tra loro dal Renjo Pass e dal Cho La Pass, ambedue a quasi 5400m di quota. Noi seguiremo quella centrale che ci farà acclimatare in modo appropriato ma senza stancarci troppo, e ci porterà a visitare i laghi di Gokyo. Pochi turisti si spingono fino al quinto lago, dal quale si gode di una vista unica sul Cho Oyu, il Gyachung Khan e sui versanti di montagne minori che da altrove non si possono ammirare. Il programma prevede la salita di acclimatamento alla spalla del Monte Lobuche 6020m.
Il tempo non ci accompagna, il Monsone è in ritardo e piove quasi tutti i giorni. Scavalchiamo il Cho La Pass e ci portiamo al campo base di questa estetica montagna, dove vi rimaniamo per due giorni chiusi in tenda sotto la pioggia battente. Il terzo, decidiamo di tentare il tutto per tutto e saliamo al Campo alto a circa 5300m. Passiamo la notte a battere il telo della tenda per non essere schiacciati dal peso della neve che cade, già pensando di smontare tutto e a scendere al Base. Ma… sorpresa, sorpresa! all’ora della sveglia qualche stella fa capolino tra le nuvole e ci decidiamo a partire. Inutile dire che eravamo “soli al mondo”.
La salita al Lobuche si svolge in gran parte su uno sperone di neve non pericoloso per le slavine. Solo la parte alta mi lasciava da pensare. Ma man mano che salivamo valutavamo che le condizioni non fossero pericolose. Siamo arrivati in cima: il cielo si è aperto pochi minuti, giusto per lasciarci ammirare il mondo dall’alto, per poi richiudersi e ricominciare a nevicare. In discesa la cresta di neve spariva tra le nuvole che ne celavano la fine. Poche ore dopo siamo al campo base a bere Chiya e a pensare ai bei momenti passati lassù. Fino ad allora non avevamo potuto ammirare molto del panorama a causa del tempo inclemente. Ma il giorno successivo, come per magia, ogni nuvola era sparita lasciando il posto al Sole caldo, al cielo blu e a “montagne di neve”!
Lo spettacolo era grandioso ma le prospettive per la salita all’Ama Dablam non erano delle più rosee. Tutta quella neve non si sarebbe certamente assestata in pochi giorni. Arrivati al campo base della “montagna più bella del mondo” facciamo amicizia con le poche cordate che si trovano lì come noi e si instaura subito un clima di grande cooperazione per l’attrezzatura della via di salita. Siccome fino a quel momento, per ovvi motivi, nessuno era ancora salito in vetta, aiutiamo le altre spedizioni a posizionare le corde fino a Campo 3. Arrivati a quel punto decido che le condizioni sono troppo pericolose per continuare la salita, e spiego a Marc che data la situazione è meglio scendere. Non abbiamo raggiunto la cima, ma il tramonto visto dai primi due campi ha ripagato certamente tutti i nostri sforzi e ci fa rientrare a valle sereni. Per le successive due settimane nessua cordata salirà la montagna.
Tornati a Khathmandu il 20 ottobre, Anne e Marc si danno il cambio e con lei ci dirigiamo alla volta del Nireka Peak. Arrivati a Lukla, risaliamo questa volta la valle più a Ovest, quella meno frequentata delle tre, che ci porterà sempre a Gokyo ma questa volta scavalcando il Renjo Pass. Al villaggio di Thame incontriamo dei ragazzi italiani che stanno aiutando la popolazione locale a ristrutturare due scuole cosicchè i bimbi possano seguire le lezioni in un ambiente più adeguato e caldo (siamo a 3800m!). Il Nireka raggiunge quasi i 6200m di quota ed è una montagna quasi sconosciuta anche alla popolazione locale perchè non è mai visibile dai villaggi. Quando la si vede, i grandi seracchi che caratterizzano il versante Sud invogliano solo la fotografia, ma non la salita. In realtà si cela una via di salita elegante, priva di pericoli oggettivi e tecnica ma non troppo. Di sicuro si puo’ apprezzare l’ambiente estremamente selvaggio. Mentre il Lobuche lo conoscevo perchè l’ho salito l’anno scorso, il Nireka era per me una totale incognita. Sapevo che era stato aperto al pubblico qualche anno fa e che non era una montagna estrema, ma la mancanza di notizie repertoriate faceva sì che Anne ed io andassimo alla totale scoperta. Il campo base si trova salendo verso il Cho La Pass a pochi minuti dalla folla ma nel posto più selvaggio della Terra, a circa 5000m di quota. Anche dal campo base non si riesce a vedere la montagna che andremo a scalare.
Solo il giorno successivo, dopo aver fatto un po’ di scuola di ghiaccio sulla lingua terminale del ghiacciaio, potremo finalmente scorgere le forme di questa bellissima vetta snobbata o sconosciuta ai più. A partire dal campo base siamo nuovamente in totale autonomia, e andiamo a posizionare il campo alto alla base della cresta SW, sul pianoro del Cho la Col 5550m. Il sole, spostandosi da Est a Ovest, ci passa sopra la testa dando spettacoli di ombre e luci sulla miriade di montagne visibili. Ma il freddo ci costringe a entrare ben presto nella tenda e a cucinare vivande calde. La salita alla cima si dimostra varia e spettacolare, tra pendii, creste aeree, pianori e seracchi innocui da aggirare. La vetta affilata ci obbliga quasi a sederci a cavallo. Siamo nuovamente soli ad ammirare il panorama, nessun rumore, nessuna distrazione se non il silenzio del vento. Un abbraccio e qualche foto poi, come succede sempre in questa strana attività, si sale per poi scendere, il perchè non tutti riescono ad apprezzarlo…
Il nostro percorso procede lungo la terza valle, quella più frequentata dal turismo perchè conduce al campo base dell’Everest. E nel giro di pochi giorni saremo di nuovo a Khatmandu a mangiare bistecche… Qui entrano in scena Nicolas e Francesco con i quali in otto giorni dalla partenza, saremo protagonisti della prima salita di “Ramri Keti” (1100m, ED, WI5+, M7, 5a, V) sull' Hama Jomjuma (vedi articolo planetmountain). Scesi a Namche Bazar per riposarci e riossigenare il sangue, risaliamo a Gokyo (eh sì... ormai anche i sassi si stupiscono di vedermi passare per la terza volta in 2 mesi!) dove il gruppo si separa. Francesco deve rientrare in Italia e proseguirà da solo. Nicolas ed io rimaniamo ancora 25 giorni con l’obiettivo di salire una via nuova su una vetta di 7000m, vicino al Cho Oyu. Purtroppo le cose non vanno sempre come vorremmo e problemi di logistica non ci permettono di raggiungerne il campo base. Per certo non rifacciamo i bagagli e non torniamo a casa ma ci guardiamo intorno e decidiamo di dirigerci verso il Dawa Peak, cima caratteristica per la forma a piramide. L’anno scorso, con Stefano della Gasperina, avevo cominciato a salire una via nuova sui contrafforti che collegano il Dawa Peak al Renjo Pass. In quell’occasione, non siamo arrivati in cima a causa di un mio malessere che ci ha costretti alla ritirata dopo circa 250m. Freschi della via all’Hama Yomjuma ci sentivamo in forma e decidiamo di completare la via. E' il primo dicembre. Khanchhya, il nostro super portatore, ci aiuta a portare il materiale alla base del ghiacciaio dove passeremo una notte in tenda. Il mattino dopo attacchiamo la via che, dopo la sezione già conosciuta, si rivela molto più dura del previsto, presentando una serie di candele di ghiaccio stile cascata, ognuna chiusa da un tetto di roccia che ne sbarra l’uscita. A quelle quote, difficoltà è sinonimo di tempo e non di velocità. Arriviamo in cima alle ultime luci e buona parte della discesa sarà effettuata la sera, illuminati dalla Luna quasi piena. Per fortuna la linea della goulotte è rettilinea, e non ci ha posto problemi nell’attrezzare le soste per la discesa. Unico intoppo, la rottura della testa di una piccozza mentre piantavamo l’ultimo chiodo… che ci causerà non pochi problemi nei giorni a venire. Chiameremo la cima 5850m con il nome del nostro portatore: Punta Khanchhya. Mentre la via l'abbiamo chiamata: “M’han dato 5 al modulo di misto” (600m, ED-, WI6, M7, A2, X, IV).
Ci rimangono ancora circa quindici giorni da passare nel Khumbu, cominciamo ad essere stanchi ma con tanta voglia di scoprire e di scalare. Un’opzione possibile e` la via degli inglesi al Cholatse, una cresta di neve meravigliosa su una montagna imponente ed isolata. Ma dopo aver aperto due vie su due cime mai salite, nel nostro inconscio c’era il desiderio di fare tris. Appena Nik si è messo a parlare della parete Nord del Kajo Ri che avevamo visto risalendo la valle, non c’è stato bisogno di dire altro per decidere quale sarebbe stato il nostro prossimo obiettivo. Dopo un primo tentativo fallito a causa dell’ulteriore rottura della piccozza danneggiata in precedenza, e di un’altra, un po’ demoralizzati, eravamo quasi tentati di andare a spassarcela con gli elefanti nel parco di Chitwan. Poi, un po’ stile MacGyver abbiamo riparato gli attrezzi con del fil di ferro e nastro americano e siamo partiti per un secondo tentativo, evitando però il grande seracco pensile e passando su una barra rocciosa alla sua destra che ci impegnerà a fondo per una giornata intera. I sacchi pesanti e le alte difficoltà non permettono una progressione veloce e, come previsto, ci fermiamo a bivaccare sul ghiacciaio mediano. Speravamo di poter montare una tendina, invece abbiamo dormito sotto le stelle tra ghiaccio e roccia. La seconda parte della salita, solca una parete fondamentalmente rocciosa disegnata (quest’anno) da poche linnee di neve compattata dal vento. Esausti dal giorno prima e dalle precedenti salite, decidiamo di percorrere la goulotte più logica e facile che ci porterà a sbucare in cresta a circa 120m dalla cima. Visto quanto poco materiale ci è rimasto per la discesa decidiamo di terminare la via lì e di cominciare ad attrezzare le soste per le calate. Dormiremo una seconda notte nel nostro “hotel 5 stelle” sul ghiacciaio. Il mattino dopo raggiungiamo i nostri portatori nel lodge di Machermo. Secondo i local vi sono stati molti tentativi ma nessuno aveva salito interamente la parete prima di quel giorno. La via si chiamerà: 'The Phantom of the Opera' (800m, ED+, WI4+, M6+, 6b/A1, A2, V).
Purtroppo, o finalmente, si rientra nel delirio di Khatmandu: è ora di tornare a casa. Questo splendido viaggio ci ha portato tanta esperienza e sicuramente ci lascerà dei bei ricordi. Con Marc e Anne abbiamo in progetto di salire il Mackinley tra due anni, Nicolas ed io torneremo nella regione del Khumbu l’anno prossimo per esplorare altre cime ignorate dalla massa che però, a quanto pare, regalano belle emozioni.
Enrico Bonino
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