Alpinismo condiviso: le persone, oltre le montagne

A settembre 2016 Giovanni Zaccaria, Matteo Baù e Christian Sega hanno ripetuto W Mejico Cabrones (1.000m, fino all'VIII-) la via aperta in solitaria, nel 2001, da Venturino de Bona sulla Nord Ovest della Civetta (Dolomiti). Una grande via ma soprattutto una grande esperienza umana come ci racconta Giovanni Zaccaria in questo report
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Matteo Baù, Christian Sega e Giovanni Zaccaria durante la ripetizione di 'W Mejico Cabrones' sulla parete nord-ovest del Civetta, Dolomiti
Giovanni Zaccaria, Matteo Baù, Christian Sega

Che le montagne non siano solamente grandi mucchi di pietre, è fatto ormai assodato tra gli alpinisti di ogni generazione e formazione. Male non ce ne vogliano i geologi se, per noi, sono le persone a rendere preziose, affascinanti, addirittura a volte vive, le montagne. Ogni alpinista l’avrà sentito dire, tutti o quasi concorderanno e molti, anche tra i più forti o i più comunicativi, hanno fatto proprio questo concetto esprimendolo a modo loro. Ma cosa vuol dire?

Io ho avuto la fortuna di farne esperienza a fine estate, tra le pieghe della parete Nord Ovest del Civetta, prima, durante, e dopo la salita di W Mexico Cabrones. Per chi non la conosce, questa via è stata aperta in solitaria dal fuoriclasse Venturino de Bona nel 2001, ed è finita sotto i riflettori della cronaca nel 2005, quando Alessandro Baù ed Enrico Marini hanno effettuato la prima ripetizione. Ora molte (relativamente) forti cordate salgono per le sue fessure, che si srotolano per più di 1000 metri, fino al VIII-, dai ghiaioni basali fino in cima a Punta Tissi. La relazione consiglia di portare una doppia serie di friend, oltre a chiodi e materiale da bivacco. Potrebbero bastare queste informazioni tecniche, un compagno di cordata, ed un paio di giorni di bel tempo, per vivere un’avventura in montagna, ma questa volta c’è dell’altro, una storia che parte e si intreccia da lontano.

Quando ho iniziato ad arrampicare, vivevo le mie piccole ma per me gigantesche esperienze alpinistiche in pareti ovviamente delle stesse dimensioni, ed intanto divoravo i report ed i racconti delle mirabolanti avventure di Alessandro Baù, padovano come me, sulla mitica parete Nord Ovest. Erano sogni lontani ed irraggiungibili, eppure forse sono stato sedotto già allora. I voli pindarici della mia mente cercavano di carpire i segreti di un forte alpinista, ma anche di decifrare le sensazioni che la montagna gli sapeva regalare. Quando il caso mi ha fatto conoscere Ale e suo fratello Matteo, è stato ben più facile conoscere i trucchi del mestiere, ma anche cogliere delle emozioni comuni: i sogni non erano più così lontani. Anche il corteggiamento della Civetta ha richiesto il suo tempo, dalla lettura di “Tra le pieghe della parete” di Paola Favero alla salita delle classiche Philipp-Flamm e Aste. Il sogno è maturato, innaffiato dall’esperienza accumulata, che rende salde e sicure le sue radici, ma anche illuminato dagli incontri con gli alpinisti, dalle storie lette o ascoltate, che lo hanno reso scintillante e magico. È tempo di coglierlo.

Ci troviamo a Coi la sera prima di partire, con Matteo e Christian, un forte amico di Verona, per preparare il materiale nei minimi dettagli: ognuno mette a disposizione della cordata il meglio che possiede, chi i rinvii ultraleggeri, chi il sacco a pelo super tecnico, chi sbuccia i bagigi in anticipo per risparmiare peso. È bello mischiare il materiale, unire le forze e prepararsi a vivere come un’unica cordata un sogno prima individuale ed ora condiviso. Quando Matteo ci dà in mano la relazione della via, fotocopiata da quella originale di Venturino, Christian ed io sentiamo un brivido passare dentro i polpastrelli: lo schizzo è disegnato con precisione, le lunghezze dei tiri, il materiale utilizzato, ed in cima… una testa azteca con la lingua fuori catalizza lo sguardo. Sorrido ed alzo gli occhi oltre la relazione, oltre la finestra: è buio, ma una luce brilla in cima al Civetta. Le stesse mani che hanno disegnato quella testa azteca si trovano ora lassù, a gestire il rifugio Torrani e custodire il Civetta ed i suoi ospiti. Matteo telefona ancora a suo fratello per gli ultimi consigli logistici, ma purtroppo o per fortuna questi non ci risolvono tutte le incognite.

Di notte la parete delle pareti è un lungo sipario chiuso, difficile da interpretare. Mentre Matteo cerca come un segugio i suoi punti di riferimento tra ghiaioni e resti di nevai, io e Christian focalizziamo insieme le lampade frontali alla ricerca della famosa macchia gialla che indica l’attacco. Partiamo per il primo tiro poco prima dell’alba, quasi sicuri di essere nel posto giusto ed al momento giusto. Finalmente gli ultimi dubbi svaniscono quando trovo, nascosti da qualche sassolino, i due piccoli chiodi della prima sosta. Dopo qualche ora la parete si impenna: abbiamo perso una frontale, ma già salito 9 tiri. Il pensiero corre ad Ale, che al primo tentativo si è calato da questo punto, ma per tornare caparbiamente il giorno seguente e proseguire fino in cima.

Saliamo tre tiri in fessura su roccia compattissima, ed arriviamo sotto un grande tetto. Qui Venturino, pur di non ricorrere alla scalata artificiale, si è prima ritirato, ed ha successivamente risolto il problema inventando un esposto pendolo. Cambiamo capocordata e ripartiamo a scalare da una sosta scomoda e appesa a due piccoli spit ballerini ed un chiodo. Ogni lunghezza che saliamo siamo un po’ più stanchi, ma sempre più sorpresi dalla bellezza dell’arrampicata. Quando passiamo la nicchia Hilton, possibile posto da bivacco, il crepuscolo si avvicina ed i minuti scorrono ormai come acqua tra le mani, ma siamo decisi a raggiungere la cengia del Miracolo. Matteo parte velocemente per il tiro chiave, con grande determinazione ma senza frontale. Consuma le ultime energie e gli ultimi bagliori del giorno per passare in libera il tratto più duro, e si trova poi a dover allestire una sosta completamente al buio, con la luce del telefono insufficiente per illuminare a fondo le fessure: questa operazione ci costa un’ora di tribolazione.

Innestato ormai il circolo negativo, sull’ultimo tiro si incastra una corda durante il recupero, e quando Christian ed io arriviamo finalmente alla cengia, da secondi con una frontale in due, constatiamo che abbiamo sofferto di più in queste ultime ore che in tutto il resto della lunga giornata. Matteo invece non constata proprio niente e si addormenta sopra un pacchetto di cracker aperto. Lo sveglio per entrare nello stesso sacco a pelo, mentre Christian incastra dei microfriend ai quali appendere l’amaca. Il mattino seguente ci scrolliamo di dosso il sonno, il freddo e la stanchezza e ripartiamo per gli ultimi quattro tiri. Pur stando attenti alla roccia un po’ marcia, corriamo veloci verso l’alto, mentre ci giungono notizie di temporali e acquazzoni in pianura: presto arriveranno anche qua. Le prime leggere gocce d’acqua ci danno il benvenuto in cima a Punta Tissi, ma arriviamo comunque al Torrani asciutti. Lo rimaniamo però per poco, dato che Venturino ci innaffia subito di birra per festeggiare.

Ho sentito parlare da Ale, Matteo, ma anche altri amici della memorabile accoglienza al Torrani, ma viverla sulla mia pelle è stato impagabile come ricevere una benedizione. Matteo si sente di casa quassù, conosce il “Ventura” ed ha vissuto per qualche breve periodo al Torrani per aiutarlo con qualche lavoro. Io e Christian ci sentiamo invece ospiti graditi che si presentano al padrone di casa. Mentre, pur in ritardo rispetto alle nostre giacche, ci gustiamo una meritata birra, fuori dal rifugio inizia a diluviare. La cosa non ci turba minimamente, anzi ancor più rilassati ascoltiamo i racconti del Ventura. Il “mago delle nuvole” ha qualche capello bianco, ma lo sguardo vispo e curioso di un bambino. Umile e riservato, ascolta con sguardo attento ogni persona che gli parla: se racconta qualche aneddoto non lo fa con l’esuberanza di un vanitoso, ma solamente con il desiderio di condividere una passione. Percorre con la memoria la sua via, scorrendo le foto della nostra macchinetta; lui, dice, era da solo, quindi foto non ne ha. E sorride.

Dopo il pendolo gli si è rotto il pianta spit mentre ne piantava uno in sosta, quindi, quando ha saputo che Ale andava a ripetere la via, gli ha chiesto di piantarne un altro a fianco; ci guarda attonito quando gli raccontiamo che su quella sosta ci siamo stati appesi in tre. Lui, alla sosta prima invece, è rimasto appeso un pomeriggio e una notte intera, sotto il temporale, prima di scendere rassegnato a valle! I racconti si mescolano e la via ci sembra ancora più familiare, adesso che il suo apritore ci sta svelando i retroscena e qualche piccolo segreto. W Mexico Cabrones è la condivisione di tutte queste storie, e anche molte di più che forse non sapremo mai. Ma come sarebbe stato riduttivo leggere la relazione, partire con le due serie di friend, scalare in libera e a vista per poi tornare a casa con la via in tasca!

Dopo qualche ora smette di piovere, ed anche se resteremmo volentieri lassù tra le nuvole con il loro mago, ci sentiamo costretti controvoglia a scendere. È tempo di sognare la prossima montagna, la prossima via, magari questa volta da aprire per iniziare una nuova storia. Ma intanto lo abbiamo capito: oltre le montagne, se sapremo ascoltare, troveremo le persone.

di Giovanni Zaccaria

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