Alex Txikon, l'alpinista, l'uomo e il racconto di un incontro speciale
Ero appena arrivato a Skardu, un giorno di giugno del 2011. Ero parte di un folto gruppo di alpinisti diretti al campo base del G2, oltre il Concordia. Tutti determinati a scalare almeno due ottomila. Gerfried Göschl era la guida che dettava legge su tutti, con piglio forte e deciso. Era un gruppo colorito, formato da italiani, spagnoli, baschi, canadesi. Almeno venti persone tra trekkers e alpinisti, tutti animati da una forte spinta a scalare o almeno stare dentro per un pezzo della propria vita in quella dimensione indefinita, fatta di storie, passi, luoghi, paesaggi, montagne che appartengono alla storia dell'alpinismo. E ci si poteva immergere, e perdersi. Alex era tra loro, defilato, nel piccolo e affiatato gruppo dei baschi. L'avevo visto al campo di polo di Skardu, cimentarsi in una sfida potente, a spaccare legna davanti a un migliaio di persone che batteva le mani ritmicamente ad ogni tronco frantumato a suon di accettate, precise, millimetriche.
Avevano attraversato l'Asia con un pulmino Renault e un carrello al seguito, pieno di patacche pubblicitarie spiaccicate sui vetri. Alex aveva un viso pulito, chiaro, senza rughe, e gli occhi limpidi e pieni di luce. Una luce riflessa nelle montagne della sua terra, il Gorbea e il Picos de Europa, nel primo ottomila scalato a 21 anni, il Broad Peak. Come un fiume che più scende, più si ingrossa, così mi era apparso Alex. Io ero completamente ignaro delle persone con cui stavo iniziando un viaggio tra le pietraie del Karakorum. Juan Carlos Tamajo, Luis Rousseaux, Mario Vielmo, Gerfried Göschl e altri oscuri personaggi che ambivano tutti a conquistare un posto nel firmamento degli ottomila. Da Askole ci incamminammo all'alba, dopo aver sistemato i carichi tra i portatori, scorgendo appena nella luce aurorale i lontani pinnacoli di granito delle torri di Trango. Il cammino era lungo, almeno dieci giorni fino al campo base, e avremmo risalito il ghiacciaio del Baltoro fino al crocevia con i ghiacciai che si diramano dal Concordia a sinistra fin su verso il K2 e nel ramo di destra verso il Gondogoro La.
Ci eravamo intravisti e scambiati poche parole. Dopo alcuni giorni, capì che avevo voglia di parlare e conoscere altri alpinisti, fuori dal mio piccolo branco. Avevano passi veloci, gli italiani, ma io seguivo i passi lenti degli altri. Alex era insieme ad una troupe televisiva che lo seguiva nella spedizione. Incrociammo i nostri sguardi ed ebbi la sensazione netta che ci saremmo "incontrati". Così avvenne. Iniziammo a parlarci, a raccontarci le nostre storie, i sogni, le paure... Lui si era aperto come un fiore e mi parlava, non delle sue imprese, ma di quello che avremmo potuto fare insieme. Ogni parola era un passo e i passi guidavano e davano il ritmo alle nostre storie, una sorte di narrazione a due voci che si dipanava tra i ghiacci, le morene infinite, i tonfi e le fratture dei seracchi sotto i nostri piedi... Attraversammo l'intero ghiacciaio raccontandoci dei nostri amori, degli amici e della nostra terra. Appartenevamo a civiltà lontane, io alle propaggini del profondo Sud e lui figlio di una terra oscura, di una lingua ignota, dalle radici arcaiche, ma con un sentimento di appartenenza fortissimo.
Quando lo rividi a Bilbao, un anno dopo, mi aveva raccontato di un suo amico terrorista basco, rinchiuso a vita a Madrid, con cui intratteneva un rapporto profondo. Almeno una volta alla settimana lo incontrava nel carcere di massima sicurezza... La sua famiglia era una tribù di tredici figli con una grande madre capace di nutrirli tutti.
Il lungo cammino ci aveva legati come in un intreccio vitale, dando origine a quei sentimenti forti e profondi che solo la montagna sa dare. Diventammo amici. Veri amici.
Nel 2009 aveva consumato la separazione dal team di Edurne Pasaban per spiccare il volo da solo, con le sue proprie ali. Nel 2011 aveva scalato il G1 e il G2, avvicinandosi alla cima del K2. L'inverno successivo, era parte della squadra invernale al G2 con Göschl. Erano tutti morti, scomparsi, poco sotto la vetta. Alex si era fermato a 7000 metri, intuendo il grande pericolo. Era rientrato sano e salvo.
Avevamo trascorso insieme una settimana a giugno del 2012 con i suoi parenti e amici. A casa sua non sembrava un alpinista, faceva il carpentiere, ma stava lentamente sollevando le ali verso luoghi e montagne lontane.
di Domenico Perri (Istanbul, 22 dicembre 2017)
Con questo ritratto di Alex Txicon, Domenico Perri inizia la sua collaborazione come inviato speciale di Planet Mountain, per vivere, raccontare e condividere con tutti voi la grande avventura di Alex Txikon sull'Everest, e il suo secondo tentativo di scalare la più alta montagna del mondo senza ossigeno e in inverno.
info: Everest 2018 Winter Expedition b.c. 5364 m