Gestione del rischio e attività OutDoor, intervista ad Angelo Seneci
Angelo Seneci, tragedie come quelle che quest'anno sono successe nell'ambito di alcune attività outdoor lasciano senza parole. Cosa ne pensi?
E’ sempre delicato intervenire su eventi drammatici come quelli. Il primo pensiero va alle vittime e ai loro familiari... Tragedie come quelle suscitano sconforto accompagnato sempre da accesi dibattiti. Tuttavia non ho sentito nessuno porsi una domanda fondamentale: quanto e come è cambiato il mondo dell’outdoor e quale nuovo approccio e risposte richieda questo nuovo scenario da parte dei diversi attori coinvolti: amministrazioni pubbliche, associazionismo, professionisti.
Puoi spiegarti meglio?
Sembra quasi che un po' tutti facciano finta di non vedere questo cambiamento per non perdere posizioni di privilegio. Non ci si rende conto che di questo passo il rischio è che le amministrazioni pubbliche, spaventate dalle ripercussioni legali (penali e civili), passino tout court alla chiusura delle aree potenzialmente pericolose.
Dunque cosa si dovrebbe fare in concreto?
Senza entrare nel merito del caso specifico che ha peraltro proprie specificità, credo sia importante che gli esperti comincino a pensare e suggerire percorsi che evitino due scenari estremi: da un lato la quasi deregulation a cui assistiamo oggi, con le drammatiche conseguenze che ne derivano, dall’altro il diffondersi dei divieti con la fine dello sport outdoor.
Da dove si parte per pensare al futuro?
Prima di tutto dobbiamo affermare il grande valore che le attività sportive outdoor hanno assunto sotto il profilo sia sociale che economico: sono ormai decine di milioni le persone che in tutta Europa dedicano il loro tempo libero all’escursionismo, alla mountainbike, all’arrampicata, alla discesa dei canyon. Da attività di nicchia, praticate da uno sparuto numero di “avventurieri”, con un solido background tecnico ma anche culturale, capaci quindi di valutare il rischio ma anche di accettarlo con tutte le sue conseguenze, si sono trasformate in attività sportivo-ricreative praticate da milioni di persone, spesso con background tecnico e culturale limitato, che vogliono solo trascorrere qualche ora di svago ed emozione nella natura, spesso senza alcuna contezza dei rischi a cui sono esposte.
E' questa crescita esponenziale che segna il cambiamento del mondo dell’outdoor di cui parlavi all'inizio?
Sì, e bisogna sottolineare anche che questa crescita esponenziale dei praticanti ha permesso ad alcune località, in modo sempre più diffuso negli ultimi anni, di fare di queste attività una risorsa economica, non solo per destinazioni turistiche già sviluppate ma anche per aree fino ad ora tagliate fuori dai classici flussi del turismo balneare o montano. Ci sono aree di arrampicata dove le presenze annuali ormai si contano a centinaia di migliaia, singole vie ferrate o canyon che vedono oltre diecimila passaggi all’anno, sentieri panoramici dove transitano quasi mezzo milione di persone all’anno, dove agenzie di guide ed accompagnatori più volte al giorno accompagnano gruppi di decine di persone... Possiamo veramente pensare che situazioni di questo tipo possano essere lasciate all’autoregolamentazione degli utenti?
Stai proponendo di “regolamentare” le montagne e la natura?
Certo che no! Anzi voglio troncare sul nascere qualsiasi discussione impropria: non si tratta di applicare questo modello a tutto il mondo outdoor, a tutte le attività, ma solamente nelle situazioni dove i numeri o il contesto specifico (ad esempio facile ed immediato accesso, promozione turistica) ne faccia un attrattore per persone con uno scarso livello di capacità autonoma di valutazione del rischio. E’ chiaro che non si potrà e non si dovrà intervenire a regolamentare l’alpinismo, l’escursionismo, l’arrampicata o lo sci-alpinismo nelle aree selvagge e liberamente attrezzate dai praticanti. Mentre ritengo altrettanto evidente che quando i numeri diventano importanti, in modo particolare per attività con concentrazioni considerevoli in spazi limitati ed esposti a rischi importanti, si debba pensare ad una loro gestione.
Ecco, appunto: di che tipo di gestione si tratterebbe?
Una gestione che alla base deve avere una preliminare valutazione dei rischi che consenta di valutare la fattibilità di progetti ed interventi di mitigazione, seguita da regolare ispezione e manutenzione per mantenere il livello di rischio pianificato e conseguito. Si devono poi dare chiare informazioni sul livello di rischio residuo e su eventuali limiti alla frequentazione dell'area. In alcuni casi può essere necessario gestire gli accessi, con numeri contingentati o interdizione in caso di accresciuta pericolosità. La gestione degli accessi può anche essere necessaria a garantire la capacità di chi accede. Dovranno essere messe in campo strutture e servizi per lanciare allerte in tempo reale ed immediate operazioni di evacuazione dell’area e soccorso.
Insomma, quello che alcuni chiamano il modello “parco divertimenti” applicato alla natura?
A chi mi dice che così trasformiamo la montagna in un parco dei divertimenti, rispondo che, in alcune aree, lo è già, piaccia o non piaccia, e che è anche una fonte di reddito importante per tanti territori ed una industria con un impatto relativo sull’ambiente (ho detto relativo e non nullo) e certamente inferiore a tante altre opzioni di reddito per le popolazioni locali. Dobbiamo prenderne atto e trovare i modi per gestire questo fenomeno al meglio. Gestire i numeri non aumenta solo la sicurezza ma anche contiene l’impatto ed il degrado sia nei confronti dell’ambiente, che della popolazione locale, che della stessa esperienza per i praticanti.
Scusami, ma così rischiamo che si impongano le stesse regole stringenti per tutto lo spazio outdoor...
E' un falso problema, uno spettro agitato per lasciare ovunque la deregulation. E’ evidente che dove il rischio è puntuale (in termini di persone esposte), dove è chiaro che ci si trova in un ambiente naturale selvaggio (il cosiddetto terreno di avventura) la gestione non ha senso oltre che essere non applicabile, diverso è in aree facilmente raggiungibili, massicciamente frequentate, pubblicizzate e segnalate. Anzi, vado oltre: la pratica in terreno di avventura ricaverà vantaggi da una chiara distinzione tra terreni d’avventura e siti naturali attrezzati, in caso di incidente sarebbe evidente che in quelle condizioni l’accettazione di un rischio elevato è parte del gioco, mentre non lo può essere, ad esempio, quando l’attività viene proposta come Family.
Torniamo alla gestione di questi spazi, a chi dovrebbe essere affidata?
La gestione deve essere affidata ad una struttura che abbia le competenze, ed allo stesso tempo possa garantire la necessaria oggettività ed immediatezza nella valutazione del rischio.
Dunque chi dovrebbero essere i soggetti in grado di prendere in carico la gestione di un sito naturale attrezzato?
Su questo ritengo sarebbe sbagliato definire in modo univoco soggetti e procedure a livello generale, troppo diversi i contesti istituzionali, amministrativi, socio economici. Possono assumerlo le amministrazioni con proprio personale formato o affidarlo in appalto, l’area può essere affidata in concessione (sull’esempio delle spiagge ma anche dei BikePark) ad una associazione, una società, che se ne assuma gli oneri di manutenzione, controllo e gestione, a fronte di una tassa di ingresso. Ovvio che dovrà essere personale con elevata capacità decisionale e responsabilità, oltre che specifiche conoscenze tecniche. Su questo devo ritornare al punto iniziale, agli scontri tra i vari soggetti che sono coinvolti nell’accompagnamento e nell’insegnamento...
Ecco, ritorniamo al quadro attuale...
Ci troviamo di fronte ad un quadro normativo che da tempo non è più adeguato e che anche per responsabilità dei diversi soggetti coinvolti non è mai stato fatto evolvere: tutti indistintamente, chi per difendere i propri interessi corporativi, chi per mantenere piccole posizioni di potere, chi perché spera di avere più spazio di manovra nella deregulation. Ci sono aree del paese, soprattutto al sud, dove peraltro questo tipo di economia potrebbe essere l’occasione di lavoro per tanti giovani, dove i professionisti di queste attività mancano totalmente e dove le guide invece che mettere la propria professionalità a disposizione per la loro crescita, spesso hanno un atteggiamento “coloniale” e facendone riserve di lavoro per le stagioni morte, attaccando qualsiasi tentativo di organizzazione autonoma locale accusata di abusivismo. D'altro canto alcune organizzazioni para professionali o associazioni hanno osteggiato qualsiasi rapporto reale con le guide per la paura di cedere spazi conquistati.
Quindi, cosa si potrebbe fare secondo te?
Più serio ed anche utile alla tanto sbandierata sicurezza sarebbe un tavolo di lavoro comune, che veda tutti i soggetti che attualmente sono impegnati a vario titolo in questo mondo, definire i contorni delle nuove figure professionali di questo sport. Ma un tavolo che non sia un trattativa dove tutti puntano al massimo per la propria categoria, ma dove tutti mettono sul tavolo le proprie competenze per creare veramente nuove figure professionali per l’arrampicata sportiva, il canyoning, la speleologia, l’escursionismo.
Angelo Seneci. Laureato in scienze geologiche. Nei primi anni ottanta esercita la professione di guida alpina. Fonda poi Sint Roc una delle più note aziende di strutture per arrampicata ed è tra gli inventori di Rock Master. È protagonista del successo del GardaTrentino come destinazione turistica di riferimento per l'outdoor. Ora porta la sua esperienza nello sviluppo del turismo outdoor in tutto il mondo. Nel ruolo di consulente con la società Outdoor Advisor per enti pubblici e privati ha modo di toccare costantemente con mano le problematiche della gestione del rischio nello spazio outdoor.