Nanga Parbat
La montagna del destino
C’è più di una ragione per segnalare questo “Nanga Parbat. La montagna del destino” di Reinhold Messner. Intanto perché racconta la storia di una “montagna mito” dell’alpinismo himalayano. Poi per le bellissime foto: da sole valgono interamente i 39 euro del volume. Ma non basta. Non può bastare: tutti gli alpinisti sanno che c’è molto di più.
Planetmountain
Anno
2008
Editore
Mondadori
Recensitore
Vinicio Stefanello
Prezzo
39 euro
Pagine
292
Lingua
Italiano
ISBN
978-88-370-6501-9
C’è più di una ragione per segnalare questo “Nanga Parbat. La montagna del destino” di Reinhold Messner. Intanto perché racconta la storia di una “montagna mito” dell’alpinismo himalayano. Poi per le bellissime foto: da sole valgono interamente i 39 euro del volume. Ma non basta. Non può bastare: tutti gli alpinisti sanno che c’è molto di più. Infatti, è proprio sul Nanga Parbat che Reinhold Messner perse il fratello minore, Günther. Una perdita che ha segnato profondamente la sua vita, e anche la sua straordinaria carriera di alpinista. Questa dunque è prima di tutto la storia della montagna del “suo” destino, oltre che dell’alpinismo tedesco.
Occorre ritornare al 1970. All’anno in cui Karl Maria Herrligkoffer chiamò Reinhold e Günther Messner a far parte della sua quarta spedizione al Nanga Parbat. Per i fratelli altoatesini, già conosciuti per le loro scalate sulle Dolomiti e sulle Alpi, era la prima volta in Himalaya: un esordio che li vide subito in vetta con la prima salita dell’immensa parete Rupal, e la terza salita assoluta del Nanga. Una grande impresa, ma anche il preludio di una tragica odissea segnata, appunto, dal destino.
Quel 27 giugno del 1970 Reinhold doveva essere da solo in vetta; il fratello lo seguì di sua iniziativa. Perciò erano senza corda. Perciò, quando Günther non se la sentì di scendere per la via di salita, dovettero prima bivaccare e poi discendere lungo lo sconosciuto versante Diamir. Una pazzia che, come afferma Reinohld, divenne una necessità. Günther soffriva di mal di montagna, non avrebbe sopportato un altro bivacco. Né si poteva aspettare la seconda cordata diretta alla vetta e che in precedenza non aveva potuto portargli aiuto. Fu una scelta per sopravvivere, dunque. Una fuga dalla morte che vide Reinhold precedere il fratello per indicargli la strada migliore nell’immensa parete.
Dopo un secondo bivacco, Reinhold continuò ad aprire la strada verso la salvezza. Continuò sfidando la roulette russa dei seracchi e delle slavine. Finché giunse alla base della grande parete Diamir: era salvo. Attese Günther. Ritornò sui suoi passi per andargli incontro. Lo aspettò e lo cercò tutta la notte e anche il giorno dopo. Avevano compiuto (per necessità come ribadisce Reinhold) la prima traversata di un Ottomila, un’impresa impossibile per l’epoca. Ma Günther non arrivò mai. Di lui non restava alcuna traccia, se non il cumulo della slavina che probabilmente l’aveva sepolto ormai vicinissimo alla salvezza. Solo, visto che il campo base della spedizione era sul versante opposto. Senza cibo. Distrutto. Con i piedi congelati, Reinhold continuò la sua discesa disperata verso valle. Fu salvato da dei pastori, quando ormai era al limite, quasi un fantasma. Poi sulla via del ritorno s’incontrò fortuitamente con il resto della spedizione, che aveva smontato il campo e che ormai li aveva dati entrambi per morti.
Reinhold perse, in parte o completamete, 7 dita dei piedi per congelamento. E ai genitori dovette dare la notizia della morte del fratello minore. Ma non era finita. Più tardi l’accusarono di aver abbandonato il fratello quando erano sulla cima, prima ancora di iniziare la discesa. Sono accuse e sussurri che in parte continuano ancora. Anche se dopo 34 anni questa tesi è stata smentita dal ritrovamento dei resti di Günther, proprio alla base della parete Diamir. Proprio lì dove Reinhold aveva sempre sostenuto dovessero trovarsi. E’ questa la storia che Messner affronta ogni volta che parla del Nanga Parbat. Anche se, come in questo caso, tratta di tutte le storie alpinistiche vissute su questa grande e bellissima montagna del Karakorum pakistano. Così, attraverso i diari, gli scritti dei protagonisti (alcuni davvero splendidi), i documenti inediti, le molte citazioni, Messner ripercorre le vicende di più di 100 anni di alpinismo sul Nanga Parbat.
Il libro inizia da quel visionario tentativo del 1895 che costò la vita ad Albert Mummery, uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi. Per continuare con l’epopea delle tragiche spedizioni tedesche degli anni ’30. E poi con la prima straordinaria salita di Hermann Buhl, con la prima solitaria integrale di un 8000 da parte dello stesso Messner, con le imprese di Jerzy Kukuczka fino alla nuova via aperta nel 2005 dagli statunitensi Steve House e Vincent Anderson. In mezzo, naturalmente, c’è la storia di quella spedizione del 1970, delle polemiche che si sono succedute e del ritrovamento dei resti del fratello.
Ma non sono le consuete storie eroiche degli alpinisti quelle che Messner racconta, o meglio non è questo che gli interessa. Piuttosto ciò che propone è un percorso nei meandri della mente degli uomini-alpinisti, e insieme un’esplorazione e una messa a nudo dei miti e della retorica dell’alpinismo. A cominciare da quel celebrato “cameratismo” di stampo militare e nazionalsocialista (definito “perverso” e “ipocrita” da Messner) che permeava le spedizioni tedesche al Nanga degli anni ’30. A questo malinteso senso del gruppo, Messner contrappone la passione per l’alpinismo, “innocente” e “libera di qualsiasi ideologia di cameratismo”, di Mummery, Buhl, Schneider ma anche di suo fratello Günther e di House.
E’ l’alpinista che sa assumersi le proprie responsabilità quello a cui pensa Messner. Un alpinista che non dà colpa alla montagna assassina (etichetta non a caso attribuita anche al Nanga Parbat) e che non si rifugia nell’ideologia del cameratismo per nascondere la sua impotenza di fronte alla natura. E’ un alpinismo che crede nelle scelte coscienti dei rischi, ma anche nella bellezza che si nasconde nell’avventura dell’affrontare l’impossibile. Questo però non significa legittimare un alpinismo incosciente o peggio che abbandona i propri compagni per raggiungere l’obiettivo. Lui, ripete, non l’ha fatto con suo fratello come non lo farebbe nessun alpinista. Ciò che non accetta è che non si siano messe in discussione semplicemente le sue scelte (quelle le ha fatte e ne rivendica in pieno la responsabilità) ma che invece lo si sia accusato di aver mentito per nascondere l’abbandono del fratello in difficoltà. Un’accusa che, pur dimostratasi infondata dopo il ritrovamento dei resti di Günther, continua ancora ora. D’altra parte, come lo stesso Messner scrive: “l’alpinismo non nasce da un romanzo, è esattamente come la vita”.
Occorre ritornare al 1970. All’anno in cui Karl Maria Herrligkoffer chiamò Reinhold e Günther Messner a far parte della sua quarta spedizione al Nanga Parbat. Per i fratelli altoatesini, già conosciuti per le loro scalate sulle Dolomiti e sulle Alpi, era la prima volta in Himalaya: un esordio che li vide subito in vetta con la prima salita dell’immensa parete Rupal, e la terza salita assoluta del Nanga. Una grande impresa, ma anche il preludio di una tragica odissea segnata, appunto, dal destino.
Quel 27 giugno del 1970 Reinhold doveva essere da solo in vetta; il fratello lo seguì di sua iniziativa. Perciò erano senza corda. Perciò, quando Günther non se la sentì di scendere per la via di salita, dovettero prima bivaccare e poi discendere lungo lo sconosciuto versante Diamir. Una pazzia che, come afferma Reinohld, divenne una necessità. Günther soffriva di mal di montagna, non avrebbe sopportato un altro bivacco. Né si poteva aspettare la seconda cordata diretta alla vetta e che in precedenza non aveva potuto portargli aiuto. Fu una scelta per sopravvivere, dunque. Una fuga dalla morte che vide Reinhold precedere il fratello per indicargli la strada migliore nell’immensa parete.
Dopo un secondo bivacco, Reinhold continuò ad aprire la strada verso la salvezza. Continuò sfidando la roulette russa dei seracchi e delle slavine. Finché giunse alla base della grande parete Diamir: era salvo. Attese Günther. Ritornò sui suoi passi per andargli incontro. Lo aspettò e lo cercò tutta la notte e anche il giorno dopo. Avevano compiuto (per necessità come ribadisce Reinhold) la prima traversata di un Ottomila, un’impresa impossibile per l’epoca. Ma Günther non arrivò mai. Di lui non restava alcuna traccia, se non il cumulo della slavina che probabilmente l’aveva sepolto ormai vicinissimo alla salvezza. Solo, visto che il campo base della spedizione era sul versante opposto. Senza cibo. Distrutto. Con i piedi congelati, Reinhold continuò la sua discesa disperata verso valle. Fu salvato da dei pastori, quando ormai era al limite, quasi un fantasma. Poi sulla via del ritorno s’incontrò fortuitamente con il resto della spedizione, che aveva smontato il campo e che ormai li aveva dati entrambi per morti.
Reinhold perse, in parte o completamete, 7 dita dei piedi per congelamento. E ai genitori dovette dare la notizia della morte del fratello minore. Ma non era finita. Più tardi l’accusarono di aver abbandonato il fratello quando erano sulla cima, prima ancora di iniziare la discesa. Sono accuse e sussurri che in parte continuano ancora. Anche se dopo 34 anni questa tesi è stata smentita dal ritrovamento dei resti di Günther, proprio alla base della parete Diamir. Proprio lì dove Reinhold aveva sempre sostenuto dovessero trovarsi. E’ questa la storia che Messner affronta ogni volta che parla del Nanga Parbat. Anche se, come in questo caso, tratta di tutte le storie alpinistiche vissute su questa grande e bellissima montagna del Karakorum pakistano. Così, attraverso i diari, gli scritti dei protagonisti (alcuni davvero splendidi), i documenti inediti, le molte citazioni, Messner ripercorre le vicende di più di 100 anni di alpinismo sul Nanga Parbat.
Il libro inizia da quel visionario tentativo del 1895 che costò la vita ad Albert Mummery, uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi. Per continuare con l’epopea delle tragiche spedizioni tedesche degli anni ’30. E poi con la prima straordinaria salita di Hermann Buhl, con la prima solitaria integrale di un 8000 da parte dello stesso Messner, con le imprese di Jerzy Kukuczka fino alla nuova via aperta nel 2005 dagli statunitensi Steve House e Vincent Anderson. In mezzo, naturalmente, c’è la storia di quella spedizione del 1970, delle polemiche che si sono succedute e del ritrovamento dei resti del fratello.
Ma non sono le consuete storie eroiche degli alpinisti quelle che Messner racconta, o meglio non è questo che gli interessa. Piuttosto ciò che propone è un percorso nei meandri della mente degli uomini-alpinisti, e insieme un’esplorazione e una messa a nudo dei miti e della retorica dell’alpinismo. A cominciare da quel celebrato “cameratismo” di stampo militare e nazionalsocialista (definito “perverso” e “ipocrita” da Messner) che permeava le spedizioni tedesche al Nanga degli anni ’30. A questo malinteso senso del gruppo, Messner contrappone la passione per l’alpinismo, “innocente” e “libera di qualsiasi ideologia di cameratismo”, di Mummery, Buhl, Schneider ma anche di suo fratello Günther e di House.
E’ l’alpinista che sa assumersi le proprie responsabilità quello a cui pensa Messner. Un alpinista che non dà colpa alla montagna assassina (etichetta non a caso attribuita anche al Nanga Parbat) e che non si rifugia nell’ideologia del cameratismo per nascondere la sua impotenza di fronte alla natura. E’ un alpinismo che crede nelle scelte coscienti dei rischi, ma anche nella bellezza che si nasconde nell’avventura dell’affrontare l’impossibile. Questo però non significa legittimare un alpinismo incosciente o peggio che abbandona i propri compagni per raggiungere l’obiettivo. Lui, ripete, non l’ha fatto con suo fratello come non lo farebbe nessun alpinista. Ciò che non accetta è che non si siano messe in discussione semplicemente le sue scelte (quelle le ha fatte e ne rivendica in pieno la responsabilità) ma che invece lo si sia accusato di aver mentito per nascondere l’abbandono del fratello in difficoltà. Un’accusa che, pur dimostratasi infondata dopo il ritrovamento dei resti di Günther, continua ancora ora. D’altra parte, come lo stesso Messner scrive: “l’alpinismo non nasce da un romanzo, è esattamente come la vita”.
Anno
2008
Editore
Mondadori
Recensitore
Vinicio Stefanello
Prezzo
39 euro
Pagine
292
Lingua
Italiano
ISBN
978-88-370-6501-9