Michele Bettega
Sulle guide dell’epoca eroica delle Dolomiti abbiamo dovuto spesso accontentarci di aneddoti e leggende, in mancanza di ricerche e pubblicazioni documentate. Questa la regola, confermata dall’eccezione della figura straordinaria e colorita di Tita Piaz, che tuttavia entra in scena solo a inizio Novecento, una trentina d’anni dopo Bettega. Di Piaz sappiamo molto grazie al libro di Arturo Tanesini Il diavolo delle Dolomiti (1943), che ne divulgò il mito, e grazie alle memorie autobiografiche A tu per tu con le crode (1949) e Mezzo secolo d’alpinismo (1952). La celebre guida fassana fa caso a sé perché, prima di essere maestro d’arrampicata, era un intellettuale accorto e battagliero, in grado di promuoversi e raccontarsi ai quattro venti. Così, a parte l’eccezione Piaz, credo che l’unica guida italiana delle Dolomiti di cui sappiamo qualcosa sia il grande e modesto ampezzano Angelo Dibona, coetaneo di Piaz e perciò anche lui ben più giovane di Bettega. Sappiamo di Dibona grazie a due libri curati dallo “scoiattolo” Carlo Gandini, il primo del 1976 uscito a vent’anni dalla morte e il secondo del 2006 per il cinquantennio, molto ampliato con belle foto e nuovi capitoli: a quest’ultima sono ben lieto di aver contribuito anch’io.
Riguardo alla storia dolomitica in generale, da alpinista e storico della montagna di una certa età, non faccio fatica a ricordare di che livello fosse la materia una trentina d’anni fa. Con la scusa del bicentenario della “scoperta delle Dolomiti”, ossia del viaggio del geologo Dolomieu nelle valli Adige e Isarco che avrebbe portato alla scoperta chimica della roccia dolomitica, nel 1989 la Provincia autonoma di Trento fece allestire a Rovereto un’ambiziosa mostra storica che si fregiava della supervisione di Reinhold Messner, da poco consacrato dalla collezione di tutti gli ottomila. Ho visitato la mostra il giorno dell’inaugurazione e ho ammirato una quantità di documenti e cimeli interessanti e disparati. Ma ricordo che la pretesa di far dialogare le scienze dure con le scienze sociali alla moda, l’accostamento della paleontologia con le maschere dei carnevali trentini e l’arte contemporanea di Mario Merz, ne facevano a mio parere un gran bazar.
Conservo della memorabile mostra il catalogo I Monti Pallidi, viaggio tra storia e leggenda nell’area dolomitica, curato dall’antropologo Luigi Chiais, che raccoglie scritti e materiali eterogenei. Nella sezione alpinistica, in mezzo alle brevi schede dei pionieri e dei più importanti dolomitisti spicca una bella pagina a colori con la lanterna pieghevole, i distintivi e i libretti di guida appartenuti a Michele Bettega, preziosi documenti dell’archivio Sat che aspettavano di essere adeguatamente studiati.
Certo è che da allora la storiografia dell’alpinismo dolomitico ha compiuto progressi vistosi. Penso anzitutto al volume di Luciano Marisaldi e Bepi Pellegrinon Pale di San Martino. Montagne, viaggiatori, alpinisti pubblicato da Zanichelli per il Natale 1993, un’opera che andrebbe rispolverata per inquadrare questa biografia di Bettega. E penso poi all’Enciclopedia delle Dolomiti, straordinaria impresa editoriale, ricchissima di documentazione, portata a termine nell’autunno 2000, sempre per Zanichelli, da Franco De Battaglia e ancora da Luciano Marisaldi, animatore della collana bolognese di libri di montagna che a lungo dominò il mercato.
Una dozzina d’anni dopo, mentre erano sparite storiche testate come «La Rivista della Montagna» e «Alp» e un po’ tutta l’editoria di settore stentava, uscivano a ripetizione destando sorpresa due nuove opere ancor più approfondite sulla storia della prima fase dell’alpinismo dolomitico. Da un lato l’ampia e analitica indagine di Mirco Gasparetto Pioneers. Alpinisti britannici sulle Dolomiti dell’Ottocento, splendido volume che brilla nella collana storica dell’editrice Nuovi Sentieri di Bepi Pellegrinon. E, subito dopo, il poderoso cofanetto di Fabrizio Torchio e Riccardo Decarli A est del romanticismo. 1786-1901, alpinisti vittoriani sulle Dolomiti, costituito da estesa ricostruzione storica, ricca antologia di testi e minuziosi apparati documentari.
Difficile fare di più. Queste due grosse ricerche complementari sembrano esaurire ogni ulteriore possibilità di indagine sull’epoca che va dai pionieri alla Grande Guerra che avrebbe segnato una svolta epocale. Sembrano esaurire, se trascuriamo il dettaglio della lingua e della nazionalità. Infatti, queste opere impegnate a indagare e riscoprire il ruolo degli inglesi, finiscono per sopravvalutare gli ospiti a danno dei padroni di casa. Che fine hanno fatto gli austriaci e i tedeschi, che sulle Dolomiti hanno giocato in casa loro fino alla Grande Guerra? Gli austrotedeschi che, dopo la prima fase di conquista condotta dai britannici con le guide locali, hanno sempre trainato con le guide italo-tirolesi, e spesso anche senza, l’evoluzione tecnica del dolomitismo? Noi spesso dimentichiamo che l’intera regione dolomitica è diventata territorio italiano solo nel 1919, con l’arretramento della frontiera austriaca al Brennero. Una dimenticanza che va a braccetto con il frequente, sbrigativo aggiramento delle fonti in tedesco, certo dovuto all’oggettiva barriera della lingua. Non scorderei però una radice storica, ossia la baldanza nazionale con cui siamo entrati in campo nel ventennio fascista per italianizzare le montagne dolomitiche, contrastando con successo gli ex padroni nella “battaglia del sesto grado”.
Ecco perché questa biografia di Michele Bettega, pur inserendosi nel panorama della storia dolomitica oggi molto più conosciuta di una trentina d’anni fa, presenta rilevanti novità. Anzitutto la ricostruzione dettagliata della lunga carriera alpinistica della “prima guida del Primiero”, di un protagonista chiave dell’esplorazione delle Pale di San Martino e primo salitore con i suoi clienti forestieri di una cinquantina di vie nuove, non solo sulle Pale; infatti, come si sa, quella più nota è la prima via salita sullo spettacolare paretone sud della Marmolada nel 1901, con il compaesano Bortolo Zagonel e la forte cliente inglese Beatrice Tomasson. Nel contempo la biografia della guida getta nuova luce su diversi aspetti della vita quotidiana e sul contesto sociale in un distretto di confine del Sud Tirolo italofono sotto la dominazione austriaca.
Passati i sessant’anni, Bettega incrocia personalmente la catastrofe della Grande Guerra, dapprima perché il Primiero si trova a ridosso del fronte, e dopo Caporetto e il ritorno degli austriaci, per la drammatica vicenda personale dell’arresto, quando la guida fu imprigionata a Pergine Valsugana, imputata di tradimento e spionaggio a favore degli italiani. Dopo aver rischiato l’impiccagione e subìto la confisca dei beni, solo in parte poi restituiti, verrà scagionato per l’assenza di precedenti e di legami con l’irredentismo trentino. Oltre all’amarezza, al povero Bettega resterà una gamba menomata per un incidente durante una ricognizione notturna con gli alpini italiani. Il recente e prolungato centenario della Grande Guerra rende più viva e commovente la riscoperta dei retroscena bellici nella carriera dell’anziana guida, diventata pienamente italiana solo in età matura e a caro prezzo.
Una carriera che, specie nella fase iniziale, svela in maniera emblematica la reale condizione di subalternità sociale delle guide nell’Ottocento, un mestiere tanto esaltato quanto talvolta travisato dalla storiografia alpinistica. Benché sia diventato famoso e ammirato, Michele Arcangelo Bettega, nato a Mezzano di Primiero il 19 dicembre 1853, è stato per tutta la vita un modesto contadino di montagna. Raggiunto un certo benessere piuttosto tardi, ebbe la carriera compromessa dalla catastrofe della Grande Guerra, così per la lesione alla gamba e l’età è tornato solo contadino. Prima di affermarsi era stato a lungo servitore, anche da guida. Nel 1872, all’età di 19 anni, era entrato alle dipendenze dei fratelli Ben di Fiera come famiglio, ossia servitore, garzone di stalla, pastore, facchino e tuttofare. Rimarrà a servizio dei Ben per una ventina d’anni, diventando nel frattempo guida, ma sempre sotto padrone.
Nel 1873 i Ben trasformano l’antico ospizio sugli alpeggi ai piedi del passo Rolle, facendone l’Albergo Alpino capostipite della futura “albergopoli” di San Martino di Castrozza. Poiché il giovane servitore è agile, prestante e ottimo conoscitore dei luoghi, viene incaricato anche di guidare i turisti nelle escursioni e ascensioni sulle cime circostanti. Solo nel 1881 Michele Bettega ottiene dalla Sat il distintivo di guida, attività che in realtà svolge da anni con successo. Continuerà però a lungo a non incassare un soldo in più del suo salario di servitore tuttofare, a parte le eventuali mance. Per quanto abbia l’aspetto di un brigante con la sua barba irsuta, il garzone-guida è una persona mite e allegra, servizievole e affidabile. Perciò i clienti annotano sul libretto rilasciato dalla Sat descrizioni delle ascensioni compiute e giudizi elogiativi per la bravura in parete e la simpatia.
I libretti di guida di Michele Bettega conservati alla Sat, finalmente studiati, decifrati e tradotti, sono stati naturalmente la base e il filo conduttore per ricostruire le ascensioni, le figure dei clienti e per risalire a ulteriori testimonianze disperse su libri di memorie e periodici dei club alpini soprattutto tedeschi, inglesi e italiani. Ma si vedrà bene che la ricerca si è estesa in varie altre direzioni, per rintracciare negli archivi di parrocchie e comuni del Primiero e in quelli militari e giudiziari trentini notizie sulla famiglia, la scolarità, le visite di leva (fu giudicato «inabile per ora per gracilità»), il primo matrimonio contratto nel 1877 (avrà cinque figli, solo tre divenuti adulti), il secondo matrimonio nel 1907 con una cognata vedova e naturalmente la vicenda del processo nella Grande Guerra.
Nei capitoli centrali del libro sfilano le figure degli alpinisti inglesi, austriaci, tedeschi e anche italiani che si sono legati alla corda di Bettega nell’arco di quarant’anni, sia per ripetere le vie più rinomate (scalò più di duecento volte il Cimon della Pala!), sia per spingersi a tracciare nuovi itinerari o conquistare nuove cime. Tra questi ultimi troviamo il noto pittore e alpinista anglo-tedesco Edward Theodore Compton, autore di un bel ritratto della guida di Mezzano e di uno stupendo disegno della cordata in azione dentro una fessura sinuosa sulla Grande Fermeda. Troviamo l’ufficiale prussiano Theodor Wundt, autore di famosi libri sulle Dolomiti e sul Cervino, che ingaggiò Bettega per realizzare le prime invernali della Cima Grande e della Piccola di Lavaredo a fine dicembre 1892. E poi si incontrano gli affiatati inglesi Phillimore e Raynor, con i quali aprì diverse vie negli ultimi anni dell’Ottocento. Le due figure più affezionate a Bettega, a giudicare dalla quantità di vie nuove tracciate con lui, risultano essere il conte di Lovelace e la stessa Beatrice Tomasson: sia l’uno che l’altra avevano lasciato traccia delle loro imprese quasi soltanto sul libretto di Bettega e del più giovane suo collega Zagonel.
Tra i clienti di Bettega incontriamo anche diversi torinesi illustri come il professor Giuseppe Levi, della cui passione per l’alpinismo la figlia Natalia Ginzburg scriverà note gustose in Lessico famigliare, il musicologo Leone Sinigaglia, Ugo De Amicis figlio del grande scrittore e il celebre Guido Rey, nipote e allievo del fondatore del Cai Quintino Sella. Nel famoso libro Alpinismo acrobatico, pubblicato a Torino alla vigilia della Grande Guerra, Rey è tra i primi a cogliere la novità più impressionante e caratteristica dell’arrampicata “sulle torri del Trentino”, la prodigiosa capacità di vincere la verticalità e il vuoto delle scalate dolomitiche.
Anch’io da torinese molto più recente, si parva licet, ho sempre amato nei miei anni migliori frequentare le Dolomiti per esplorare il laboratorio dell’arrampicata aerea e verticale e riscoprire dal vivo la storia del sesto grado. Perciò, trovandomi un giorno dalle parti della Marmolada, ho snobbato la storica via normale Bettega-Zagonel, preferendo dedicarmi alla più ambita via Vinatzer, che si diceva fosse la più difficile scalata dolomitica realizzata fino a metà Novecento. Diversi anni dopo, per mia fortuna, ho avuto l’occasione di percorrere anche la via normale Bettega-Zagonel che avevo scartato. In cordata con un forte compagno di antiche scalate, ci siamo detti più volte che quella via, benché datata 1901, non è affatto da prendere sottogamba. pionieri dell’alpinismo acrobatico strappano ancora oggi la nostra ammirazione.
Pietro Crivellaro (Torino, 10 gennaio 2020)
Club Alpino Accademico Italiano, Gruppo Occidentale
info: Michele Bettega. La prima guida alpina delle Dolomiti del Primiero di Paolo Francesco Zatta (Cierre edizioni)