Casimiro Ferrari
L’ultimo Re della Patagonia
Il libro sull'uomo e sull'alpinista Casimiro 'Miro' Ferrari
Planetmountain
Anno
2004
Editore
Baldini Castodi Dalai Editore
Recensitore
Daniele Chiappa
Prezzo
14,60
Pagine
220
Lingua
Italiano
Al libro Casimiro Ferrari, lultimo re della Patagonia, ho girato attorno parecchio. Lho annusato, lho sfogliato, mi è ballato diversi giorni tra le mani
e non lo nego, avevo paura di trovarci qualche gradino rotto che avrebbe potuto diminuire la mia considerazione nei confronti dellautore. La mia non era sfiducia, ma attenta circospezione, diffidenza verso un testo che avrebbe potuto scoprire qualche nervo importante (il Miro non era personaggio facile, ne da vivere e ne, tanto meno, da scrivere), ma poi ho rotto gli indugi ed effettivamente, dopo aver letto attentamente ogni periodo di vita del Miro, mi sono reso conto dellimportanza che il testo di questo libro era effettivamente una gran bella storia.
Già dalle frasi poste in testa ad ogni capitolo, ci sarebbe di che dire ma ho scoperto molte altre citazioni, di Miro, di Bonatti e di molti altri coprotagonisti di questo importante film dellalpinismo lecchese, tanto che, si potrebbe seriamente sviluppare un convegno sulla filosofia alpinistica. Casimiro è stato indubbiamente un personaggio strano; ho provato ad immaginarmelo un mutante. Un mutante che, ahimé, non ha lasciato alcun gene al mondo e che del suo DNA, a noi, nulla è rimasto. Non era facile scrivere di lui, così pieno di spigoli, di angoli acuti, di azioni controcorrente, ma scrivere di Miro poteva essere anche una sfida un po come la sua vita. Accidenti! Sto pensando che Benini ha avuto una grande fortuna. Quando Miro conquistò lAguja Mermoz, in concomitanza del ventesimo anniversario della salita al versante ovest del Cerro Torre, ebbi a dire di lui che non era un uomo, ma unappendice della montagna stessa, un pezzo di sasso insomma. Ero convinto che Miro era un po come un panda: via lui non ce ne sarebbe stato un altro uguale.
Miro si trovava certamente meglio nellinferno patagonico che a casa sua a Ballabio. Al tempo della Mermoz aveva 53 anni e mi sembrava strano che Miro riuscisse, ancora, con il male che accerchiava i suoi spazi, non solo a pensare ad unascensione così importante, ma di esserne il coautore e il capocordata sulle parti difficili. Con Miro ho passato lavventura che mai nella mia vita avrei potuto sognato di vivere, con lui ho passato tanti bivacchi in tenda, ho salito molti tiri di corda sulla ovest del Torre, ho tenuto con lui la paleria delle tende quando il vento sembrava strapparcele da sotto i piedi, ho ascoltato gli umori che emanava prima delle sue sfuriate e alla fine mi diceva... Ciapin... sem pusé fort nun del vent (Ciapin, siamo più forti noi del vento). Ho conosciuto il Miro capo spedizione, che a soli 33 anni si preoccupava della logistica, dellavanzamento dei carici (come li chiamava lui) verso i campi alti, dei viveri, della salute dei suoi uomini, dellarmonia che era indispensabile in un gruppo così numeroso. Un leader ed una leadership che oggi ce la sogniamo! Ho conosciuto il Miro, dagli sfoghi violenti ed improvvisi, propri di un animale selvatico, abituato a cavarsela sempre in qualsiasi maniera ed a pretendere che, anche chi gli stava vicino, fosse e reagisse come lui.
Qualche giorno dopo lintervento allo stomaco di Miro, per un ulcera mal curata, parlai con il Dott. Liati, nostro medico al Cerro Torre. Mi disse con la sua inflessione gallaratese... Ciapin, per el Miru ghe pu nient de fo (Ciapin, per il Miro non cè più nulla da fare!). Gli avevano aperto e subito richiuso la pancia; non cerano i minimi spazi di successo per una terapia risolutiva il male del secolo lo avrebbe portato via di li a qualche mese. Evidentemente al Miro questi calcoli umani poco interessavano. Aveva ancora molte cose da fare in Patagonia, soprattutto andarci a vivere e quindi risolvere qualche problemino patagonico ancora insoluto. Il cancro avrebbe potuto aspettare, oncologi, chirurghi, scienziati e a dirla tutta, anche qualche psicanalista, che ha dovuto cambiare qualche riga dei propri protocolli scientifici. Con Miro saltavano tutti i parametri sempre! Su qualsiasi cosa. Resistette al male ancora per altri 10 anni. La Patagonia era la sua terra primordiale... era nato a Rancio sopra Lecco; era vissuto a Ballabio, ma da sempre, probabilmente sin dalla creazione delluniverso, ha avuto un collegamento diretto con lappendice inferiore dellArgentina. Qualche tempo dopo, camminavo sopra Ballabio in compagnia della mia ragazza. Stavo vivendo con lei i momenti di crescita comuni ad una coppia e le raccontavo di quali e quanti impulsi stava ricevendo lalpinismo lecchese, dal mondo della montagna.
I Ragni erano certamente lavanguardia mondiale delle grandi imprese alpinistiche, ma non era facile fare alpinismo a quei livelli allenamenti forsennati, grandi scalate, bivacchi impensabili ed al lunedì, senza pagare il quarto dora, di nuovo in fabbrica. Miro lo sapeva che i miracoli erano difficili da fare ma lo sapeva forse solo lui! solo lui aveva pensato come fare strategicamente per avvicinarsi al mondo continuo delle scalate di grande rilievo. Io avevo 24 anni ed ero alpinisticamente, come si dice dalle parti di Lecco, un pistolino. Se il Cerro Torre mi aveva, da una parte forgiato, dallaltra mia aveva segnato profondamente da due anni non avevo messo più un paio di ramponi ai piedi avevo una sorta di repulsione al ghiaccio. I ricordi delle sofferenze, della fame, delle sfuriate di Miro mi avevano fatto capire che forse non era ancora tempo per me.
Nevischiava e laria era molto fredda Anche se non eravamo in Patagonia il tempo era da lupi un tempo da Miro insomma. Salivo lentamente pensieroso in mezzo alle betulle di Bongio quando mi sento chiamare Ciapin se fet in gir in mez ai praa (Ciapin, cosa fai in giro in mezzo ai prati). Mi volto e vedo Miro comparire da dietro una betulla Ciao Miro, gli rispondo, Ciapin, scultem (Ciapin ascoltami) e togliendo dalla tasca della giacca a vento un pacchettino piccolissimo di carta igienica, la srotola e mi fa vedere una bagola di lepre (una cacchetta di lepre). Mi chiede cosa ne penso e quanto peserà la lepre in base alla dimensione (diametro e lunghezza) della cacca stessa. Ma - gli dico io, (la sparo grossa in effetti non so nemmeno cosa stia dicendo)- secondo me sarà otto o nove etti No, Ciapin, forsi lè un chilu e du (No Ciapin, forse è un chilo e due).
Casimiro la prende molto larga: sa che non sono un cacciatore e allo stesso modo mi sta facendo una domanda alla quale non so quanti potrebbero rispondere e mi fa capire, senza tanto girarci attorno che la caccia non è il mio pane. Ma la strategia era unaltra Non si perde in chiacchiere e mi dice subito Linvernu che ve, se fet? (Cosa fai linverno venturo?) Narò a scià (andrò a sciare) gli rispondo: dai Ciapin, ve insem de me, che vem al Fitz Roy a fa el pilaster (Dai Ciapin, vieni con me che andiamo a fare il pilastro del Fitz Roy) Come se il pilastro est del Fitz Roy fosse una cosa da fare velocemente e poi via!
Guardo Lucia, la mia ragazza: sono allibito da una parte, e lusingato dallaltra non so cosa rispondere, poi mi viene in mente la fame, linterno della tenda, il sacco a pelo bagnato, il vento e gli rispondo No Miru, preferisi imparà a fa el casciadur! Ghe meti de menu (No Miro, preferisco imparare a cacciare, ci metto meno). Sarò forse lannuncio di ciò che verrà in futuro? Poca volontà ad accettare sfide? Piacere di godersi una vita senza intoppi? ci ho pensato molto, ma sono certo non fosse così. Miro era semplicemente più avanti per intuizioni e volontà. Solo quello: e basta! Lo dimostra al Fitz che si ridusse a salire in cordata da due e che è sintomatico di una caparbietà, di una energia e di una filosofia patagonica, capace solo ad un mutante.
Mi sono riletto, per piacere personale, il libro ed ho capito che anche Alberto Benini ha dovuto sfoderare tutte le sue capacità scrittorie per far stare insieme tutte le peculiarità di Casimiro. Peculiarità contrastanti fra loro, difficili anche da incollare. Una capacità che mi ha tenuto appiccicato alle pagine che hanno saputo esprimere energie positive sin da quando Miro era un cacciatore di passeri solitari, cultore di nuovi pensieri, bracconiere di sensazioni, programmatore del tirocinio di nuovi alpinisti fino a diventare stratega di grandi imprese, ma soprattutto gestore diretto della sua vita tribolata e senza pace.
Alberto è stato capace di scrivere come parlava Miro anche con spigolature fastidiose, ma con un lessico chiaro una parlata che si sente bene anche nel vento, proprio come usava fare lui Non cera bufera che attenuasse la sua voce. Ora è chiaro: Alberto Benini ha saputo dipingere il vero Casimiro una forza della natura!
Già dalle frasi poste in testa ad ogni capitolo, ci sarebbe di che dire ma ho scoperto molte altre citazioni, di Miro, di Bonatti e di molti altri coprotagonisti di questo importante film dellalpinismo lecchese, tanto che, si potrebbe seriamente sviluppare un convegno sulla filosofia alpinistica. Casimiro è stato indubbiamente un personaggio strano; ho provato ad immaginarmelo un mutante. Un mutante che, ahimé, non ha lasciato alcun gene al mondo e che del suo DNA, a noi, nulla è rimasto. Non era facile scrivere di lui, così pieno di spigoli, di angoli acuti, di azioni controcorrente, ma scrivere di Miro poteva essere anche una sfida un po come la sua vita. Accidenti! Sto pensando che Benini ha avuto una grande fortuna. Quando Miro conquistò lAguja Mermoz, in concomitanza del ventesimo anniversario della salita al versante ovest del Cerro Torre, ebbi a dire di lui che non era un uomo, ma unappendice della montagna stessa, un pezzo di sasso insomma. Ero convinto che Miro era un po come un panda: via lui non ce ne sarebbe stato un altro uguale.
Miro si trovava certamente meglio nellinferno patagonico che a casa sua a Ballabio. Al tempo della Mermoz aveva 53 anni e mi sembrava strano che Miro riuscisse, ancora, con il male che accerchiava i suoi spazi, non solo a pensare ad unascensione così importante, ma di esserne il coautore e il capocordata sulle parti difficili. Con Miro ho passato lavventura che mai nella mia vita avrei potuto sognato di vivere, con lui ho passato tanti bivacchi in tenda, ho salito molti tiri di corda sulla ovest del Torre, ho tenuto con lui la paleria delle tende quando il vento sembrava strapparcele da sotto i piedi, ho ascoltato gli umori che emanava prima delle sue sfuriate e alla fine mi diceva... Ciapin... sem pusé fort nun del vent (Ciapin, siamo più forti noi del vento). Ho conosciuto il Miro capo spedizione, che a soli 33 anni si preoccupava della logistica, dellavanzamento dei carici (come li chiamava lui) verso i campi alti, dei viveri, della salute dei suoi uomini, dellarmonia che era indispensabile in un gruppo così numeroso. Un leader ed una leadership che oggi ce la sogniamo! Ho conosciuto il Miro, dagli sfoghi violenti ed improvvisi, propri di un animale selvatico, abituato a cavarsela sempre in qualsiasi maniera ed a pretendere che, anche chi gli stava vicino, fosse e reagisse come lui.
Qualche giorno dopo lintervento allo stomaco di Miro, per un ulcera mal curata, parlai con il Dott. Liati, nostro medico al Cerro Torre. Mi disse con la sua inflessione gallaratese... Ciapin, per el Miru ghe pu nient de fo (Ciapin, per il Miro non cè più nulla da fare!). Gli avevano aperto e subito richiuso la pancia; non cerano i minimi spazi di successo per una terapia risolutiva il male del secolo lo avrebbe portato via di li a qualche mese. Evidentemente al Miro questi calcoli umani poco interessavano. Aveva ancora molte cose da fare in Patagonia, soprattutto andarci a vivere e quindi risolvere qualche problemino patagonico ancora insoluto. Il cancro avrebbe potuto aspettare, oncologi, chirurghi, scienziati e a dirla tutta, anche qualche psicanalista, che ha dovuto cambiare qualche riga dei propri protocolli scientifici. Con Miro saltavano tutti i parametri sempre! Su qualsiasi cosa. Resistette al male ancora per altri 10 anni. La Patagonia era la sua terra primordiale... era nato a Rancio sopra Lecco; era vissuto a Ballabio, ma da sempre, probabilmente sin dalla creazione delluniverso, ha avuto un collegamento diretto con lappendice inferiore dellArgentina. Qualche tempo dopo, camminavo sopra Ballabio in compagnia della mia ragazza. Stavo vivendo con lei i momenti di crescita comuni ad una coppia e le raccontavo di quali e quanti impulsi stava ricevendo lalpinismo lecchese, dal mondo della montagna.
I Ragni erano certamente lavanguardia mondiale delle grandi imprese alpinistiche, ma non era facile fare alpinismo a quei livelli allenamenti forsennati, grandi scalate, bivacchi impensabili ed al lunedì, senza pagare il quarto dora, di nuovo in fabbrica. Miro lo sapeva che i miracoli erano difficili da fare ma lo sapeva forse solo lui! solo lui aveva pensato come fare strategicamente per avvicinarsi al mondo continuo delle scalate di grande rilievo. Io avevo 24 anni ed ero alpinisticamente, come si dice dalle parti di Lecco, un pistolino. Se il Cerro Torre mi aveva, da una parte forgiato, dallaltra mia aveva segnato profondamente da due anni non avevo messo più un paio di ramponi ai piedi avevo una sorta di repulsione al ghiaccio. I ricordi delle sofferenze, della fame, delle sfuriate di Miro mi avevano fatto capire che forse non era ancora tempo per me.
Nevischiava e laria era molto fredda Anche se non eravamo in Patagonia il tempo era da lupi un tempo da Miro insomma. Salivo lentamente pensieroso in mezzo alle betulle di Bongio quando mi sento chiamare Ciapin se fet in gir in mez ai praa (Ciapin, cosa fai in giro in mezzo ai prati). Mi volto e vedo Miro comparire da dietro una betulla Ciao Miro, gli rispondo, Ciapin, scultem (Ciapin ascoltami) e togliendo dalla tasca della giacca a vento un pacchettino piccolissimo di carta igienica, la srotola e mi fa vedere una bagola di lepre (una cacchetta di lepre). Mi chiede cosa ne penso e quanto peserà la lepre in base alla dimensione (diametro e lunghezza) della cacca stessa. Ma - gli dico io, (la sparo grossa in effetti non so nemmeno cosa stia dicendo)- secondo me sarà otto o nove etti No, Ciapin, forsi lè un chilu e du (No Ciapin, forse è un chilo e due).
Casimiro la prende molto larga: sa che non sono un cacciatore e allo stesso modo mi sta facendo una domanda alla quale non so quanti potrebbero rispondere e mi fa capire, senza tanto girarci attorno che la caccia non è il mio pane. Ma la strategia era unaltra Non si perde in chiacchiere e mi dice subito Linvernu che ve, se fet? (Cosa fai linverno venturo?) Narò a scià (andrò a sciare) gli rispondo: dai Ciapin, ve insem de me, che vem al Fitz Roy a fa el pilaster (Dai Ciapin, vieni con me che andiamo a fare il pilastro del Fitz Roy) Come se il pilastro est del Fitz Roy fosse una cosa da fare velocemente e poi via!
Guardo Lucia, la mia ragazza: sono allibito da una parte, e lusingato dallaltra non so cosa rispondere, poi mi viene in mente la fame, linterno della tenda, il sacco a pelo bagnato, il vento e gli rispondo No Miru, preferisi imparà a fa el casciadur! Ghe meti de menu (No Miro, preferisco imparare a cacciare, ci metto meno). Sarò forse lannuncio di ciò che verrà in futuro? Poca volontà ad accettare sfide? Piacere di godersi una vita senza intoppi? ci ho pensato molto, ma sono certo non fosse così. Miro era semplicemente più avanti per intuizioni e volontà. Solo quello: e basta! Lo dimostra al Fitz che si ridusse a salire in cordata da due e che è sintomatico di una caparbietà, di una energia e di una filosofia patagonica, capace solo ad un mutante.
Mi sono riletto, per piacere personale, il libro ed ho capito che anche Alberto Benini ha dovuto sfoderare tutte le sue capacità scrittorie per far stare insieme tutte le peculiarità di Casimiro. Peculiarità contrastanti fra loro, difficili anche da incollare. Una capacità che mi ha tenuto appiccicato alle pagine che hanno saputo esprimere energie positive sin da quando Miro era un cacciatore di passeri solitari, cultore di nuovi pensieri, bracconiere di sensazioni, programmatore del tirocinio di nuovi alpinisti fino a diventare stratega di grandi imprese, ma soprattutto gestore diretto della sua vita tribolata e senza pace.
Alberto è stato capace di scrivere come parlava Miro anche con spigolature fastidiose, ma con un lessico chiaro una parlata che si sente bene anche nel vento, proprio come usava fare lui Non cera bufera che attenuasse la sua voce. Ora è chiaro: Alberto Benini ha saputo dipingere il vero Casimiro una forza della natura!
Anno
2004
Editore
Baldini Castodi Dalai Editore
Recensitore
Daniele Chiappa
Prezzo
14,60
Pagine
220
Lingua
Italiano