Metamorfosi e antimetamorfosi

La metamorfosi e antimetamorfosi di un climber in quarantena. Di Carlo Caccia.
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Niente roccia ma legno e plastica
Planetmountain.com

La metamorfosi è compiuta. Meno drammatica di quella di Franz Kafka, da essere umano a scarafaggio, ma in ogni caso poco gradevole, da climber a criceto. Ci sono voluti quasi due mesi, piano piano, ma alla fine l'esperimento è riuscito. Tra l'altro, come spiega Konrad Lorenz ne L'anello di re Salomone, il criceto è una bestiola facile facile, che in casa dà molti meno problemi di una scimmia (che, come noto, è il modello irraggiungibile di ogni climber). «Non conosco alcun roditore che sappia giocare in modo così “intelligente” – scrive l'etologo –, ed è consolante avere in stanza delle creature così sfrenatamente allegre e che sanno manifestare con tanta buffa grazia la loro allegria». Così i criceti normali, nati da criceti, e così quelli giganti originatisi dai climber, che è buona cosa lasciare in garage o in soffitta.

Il climber, a differenza del criceto, sogna grandi spazi. Legge sull'ultimo numero di Pareti di un paradiso di roccia in Tunisia – AGD, che ci è stato, racconta di «una botta di calcare alto fino a trecento metri e largo chilometri» – e subito sogna di partire, alla scoperta di quella meraviglia. Guarda e riguarda le foto, quasi le accarezza ma quando arriva in fondo al pezzo, dove stanno le indicazioni pratiche, si ricorda di essere bloccato in casa. Ahi, ahi... Quarantena, isolamento, clausura, arresti domiciliari: chiaro il concetto? La chiave l'hanno buttata – o forse no? – e l'unica parete appigliata rimasta raggiungibile è quella al piano di sotto: un perfetto quadrato basculante di due metri e mezzo di lato con tante (vecchie) prese colorate. Altro che Tunisia e roccia nuova a gogò: il mondo ora è questo, lillipuziano, e meno male che esiste.

La metamorfosi, quindi, è innanzitutto ambientale e il climber deve adattarsi. Lui, che senza saperlo sta per diventare criceto, chiede consigli a un amico devotissimo dell'allenamento e la risposta è la seguente: «Circuiti da venti prese dure perché altrimenti non serve, con un riposo a metà e recuperi da otto minuti». E allora la danza comincia, in punta di piedi visto che gli appoggi grossi non valgono. Il climber, misero e tapino come Zio Paperone, si allunga, si contorce, emette strani versi. Soffre, disgraziato, fatica più dei mitici Abbagnale in “acqua tre” a Seul e quando la mano si apre, maledizione, si arrabbia pure... ma è così che dev'essere: «Venti prese dure perché altrimenti non serve». Agli ordini, capo.

Un giro e un altro giro, il pannello della salvezza scende a quaranta gradi e risale a venti, e le giornate passano. A guardarle bene, però, si confondono l'una nell'altra. Sono una massa indistinta, un unico inquietante blocco temporale in cui tutto è confuso: quasi un lungo sonno popolato da sogni (incubi?) di chiusure disperate, di dinamici finalmente decenti (venissero così anche in falesia...) e di dita nastrate che chiedono pietà. Niente roccia ma legno e plastica: il mondo in due metri riuscendo a dimenticare – o forse no? – l'originale proibito. Avanti così fino a quando «un mattino, al risveglio da sogni inquieti», il climber «si trova trasformato in un enorme insetto, pardon, criceto» (impertinente e più ottimistica variazione sul tema di Kafka) senza neppure rendersene conto.

Dov'è finito il cercatore di grandi spazi? Sta nella sua gabbietta, tutto preso dal suo gioco – leggi anche dose quotidiana di endorfine – e quando finalmente gli rendono la chiave di casa, passaporto per il sole e le rocce, egli all'inizio non sa cosa fare. Uscire o non uscire? Perché in fondo non è andata così male, l'abitudine ci ha messo lo zampino e poi, fuori, come sarà? La sensazione, all'inizio, è di freno a mano tirato, che impedisce di muoversi: una subdola inerzia paralizzante che vorrebbe, incredibile ma vero, che tutto continuasse come nelle ultime settimane. Sopravvivenza domestica, orizzonte noto e limitato, l'arte di accontentarsi sul divano – reale e metaforico – senza più alcuna volontà di andare oltre. Ma così, signori miei, non può essere. Il nostro protagonista, un po' scosso, sente chiaramente una voce che lo mette in guardia: «La vita non è qui, la vita non è questa. Non accartocciarti, apriti come e più di prima. Spalanca la porta ed esci, fuggi dalla caverna e dimentica tutte le sue ombre».

Allora egli rimette mano ad aggeggi lasciati in disparte per troppo tempo, li infila nello zaino con eccitazione crescente, da ouverture rossiniana, e il destino del criceto è segnato: l'antimetamorfosi, una volta innescata, è rapidissima e la ex bestiola tornata climber – una specie che l'etologo Lorenz avrebbe studiato con sommo piacere – può ripensare ai suoi piccoli grandi progetti. Ora sa di poter sopravvivere anche senza di essi, per fortuna, ma ciò non annulla il loro richiamo e soprattutto un'idea: è un peccato mortale tapparsi le orecchie, non rialzarsi con un sorriso e non lasciarsi riconquistare, tornati se stessi, dall'ossessione infantile – e per questo vitale – dell'arrampicata.

di Carlo Caccia




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