In ricordo del nostro amico, Ueli Steck. Di Steve House

Un ricordo dell’alpinista svizzero Ueli Steck, scomparso il 30 aprile 2017 mentre saliva il Nuptse (Himalaya, Nepal) scritto dal suo amico, nonché fuoriclasse dell'alpinismo statunitense e non solo, Steve House.
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Ueli Steck e le 82 quattromila delle Alpi: Grandes Jorasses, Punta Margherita
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"Ci sono sogni che valgono una certa quantità di rischio". Ueli Steck

Ueli era, e sarà sempre, un leader per me. Un visionario che era internamente motivato a migliorarsi, a forgiarsi, a riesaminare e riscoprire se stesso, più e più volte. Ueli ha scritto una grande e profonda storia con la sua vita e le sue salite; era diventato una persona che sapeva qualcosa della propria umanità, della sua umiltà, del suo orgoglio e del suo ego; aveva guadagnato una certa saggezza il che è raro in questo mondo. Aveva così tanto da insegnarci. Il mondo è più povero con la sua scomparsa, arrivata troppo presto. Nei prossimi quarant'anni avevamo bisogno di sentirci raccontare da lui ciò che aveva imparato con il suo alpinismo.

Quando scaliamo in montagna non lo facciamo per diventare ricchi o famosi o belli o per avere una bella macchina e una grande casa. Arrampichiamo per trasformare il nostro sé, per tornare diversi. Bisogna desiderare quell'inconoscibile, quell'essere sconosciuto e futuro più di quanto amiamo ciò che siamo adesso. La maggior parte di noi ha naturalmente paura del cambiamento, soprattutto quel cambiamento a livello personale che, in fin dei conti, è ciò che ci terrorizza più profondamente. Ma credo che una volta che l'hai provato, una volta che ci sei stato e sei tornato da queste ricerche, non importa quanto donchisciottesche sembrino in quel momento, torni diverso. Questa è la rivelazione! I grandi viaggi (di molti tipi diversi) rivelano profonde lezioni su noi stessi e su questo universo, è la comprensione che non siamo statici, che possiamo cambiare e che possiamo diventare qualcun altro, una persona nuova, una persona migliore.

Tra le tante bellezze dell'alpinismo c’è il fatto che non esistono significative motivazioni esterne. Non ci sono le competizioni, non c’è nessuna medaglia, nessun premio in denaro. Poiché salire le montagne è oggettivamente inutile, l'entità della trasformazione personale deve essere grande per spingerci a dare così tanto. Incluso, a volte, anche le nostre vite.

L’alpinismo ha molto da insegnare. Quelle rare persone che possiedono la spinta per temprarsi nella fucina della scalata ai livelli più alti; quelle persone hanno sempre molto da dirci, da insegnarci, da condividere fino alla fine.

Si dice che Ueli era un talento, che la sua abilità era innata, che aveva una dote naturale. Questo è completamente sbagliato. Raggiungere una maestria nell'arrampicata al livello di Ueli Steck è un impegno a lungo termine che richiede una costanza che pochissime persone riescono ad avere. Vale la pena studiare, per comprendere ciò che ha reso Ueli quello che era.

L'alpinismo ha il potere di esporre i più timidi tra di noi, di mostrargli cos’è il vero coraggio. E' in questi casi che si ritrova il seme della conquista della consapevolezza del proprio sé, del controllo delle proprie scelte, e quindi una possibilità di superare le proprie paura e, in questo modo, di vivere più liberamente.

Ecco, è questo il punto che credo molta gente non capisca di Ueli, e spesso anche dei propri sogni. Ueli ha affrontato il critico passo nel comprendere il legame tra la sua visione di salire le grandi montagne e quello che faceva ogni singolo giorno della sua vita. Costantemente. Per molto tempo. Quelle azioni cumulative e quotidiane erano ciò che lo hanno reso il visionario che era. Nella nostra ultima corrispondenza per email, solo sei settimane fa, ha scritto: "Credo che siamo ancora molto lontani dall'alpinista perfetto."

Il suo è stato un processo eroico, il che rende l'esito ancora più tragico. Aveva una visione di ciò che poteva essere realizzato da un alpinista allenato ed eccellente tecnicamente, e si è trasformato nell’uomo che avrebbe potuto realizzare quella visione, nonostante l’evidente rischio. Questo è qualcosa da onorare e qualcosa da rispettare. E quello che rende incomparabilmente più grande la tragedia della sua morte è che il suo processo era quasi completato; non gli rimaneva quasi niente di più tranne parte dolce della vita.

Non credo nelle banalità del "è morto facendo qualcosa che amava". Il fatto della morte è molto più grande della circostanza della morte; che la morte di Ueli sia avvenuta velocemente è forse una benedizione, ma che possa essere stata violenta mi crea incubi. Il fatto della sua vita è quello che dobbiamo ricordare.

Quando un grande personaggio del mondo dell’arrampicata come Ueli muore, c'è sempre chi giudica o chi critica. A mio parere, Ueli ha ricevuto critiche più del dovuto. Credo che la maggior parte delle critiche sia radicata nell'insicurezza umana. La gente non credeva che riuscisse a fare quello che faceva, le loro paure personali erano troppo onnipotenti da permettere anche la minima possibilità di quella sua eccellenza, del suo successo. Oppure credono che i rischi che aveva assunto fossero ingiustificabili, tuttavia questa visione non riesce a vedere la sua maestria, ignora spesso gli anni di apprendistato. Questi sono giudizi fatti da persone le cui prospettive non sono capaci di piegarsi, di credere. La perdita è per coloro che non riescono a vedere la bellezza del pericolo, nel rischio ben eseguito.

E non sarebbe stato sbagliato se lui - un uomo che aveva una chiara possibilità di forgiarsi per diventare quell’alpinista che era - avesse ignorato quella conoscenza, quella intuizione? Non è forse sbagliato permettere alla grandezza di arrugginirsi su uno scaffale, nel nome del giocare al sicuro / nel nome di rimanere in sicurezza? Sì, e tutti noi saremmo stati più poveri per questo.

Le tragedie sono implacabili perché nessuna quantità di dolore, nessun desiderio, nessun pianto o tristezza, nulla, le può riportare indietro. Allora, che dire dei rischi che ha preso? Quegli stessi rischi che lo hanno portato via? Prendersi dei rischi è un giudizio e il giudizio è, per definizione, l’atto di prendere delle decisioni, decisioni spesso di vita o di morte, con informazioni imperfette. Non è matematica, non è 2 + 2 = 4, è imperfetta. Qualsiasi cosa abbia causato la sua caduta, non la sapremo mai. E sostengo che non importa; semplicemente non è possibile avere sempre ragione. Non è umano.

Tutti gli alpinisti lo sanno. Ueli decisamente lo sapeva e viveva con questa consapevolezza. Arrampicava con questa conoscenza, e ed morto con essa. Questo non lo rende né giusto né sbagliato, né buono né cattivo, né egoista né benevolo, è semplicemente quello di cui la vita, e l’alpinismo, sono fatti.

"Non puoi rimanere per sempre in vetta; devi anche scendere. Allora perché recarsi lassù? Semplicemente per questo: ciò che è sopra sa cosa c'è sotto, ma quello che è sotto non sa cosa ci sia sopra. Sali, vedi. Scendi, non vedi più, ma hai visto. C'è un'arte nel condursi nelle regioni inferiori usufruendo della memoria di quello che si è visto più in alto. Quando non si può più vedere, comunque si sa ancora. "- René Daumal

Ogni giorno creiamo questa falsa sicurezza intorno a noi, e crediamo che possiamo controllare il mondo e che tutti vivremo fino a 90 anni e che moriremo pacificamente, nel nostro sonno, circondati dai nostri cari. Il mondo che ho conosciuto è quasi sempre più imprevedibile, molto più spietato, e molto più tragico. Ma è anche bello e fonte di ispirazione, e spesso celebriamo la bellezza e l'ispirazione. Ma spingiamo via le cose che non ci piacciono, e non ci piace la tragedia quando è reale, quando è nostra. Preferiamo la tragedia falsa, sul palco o su uno schermo.

Come affrontiamo nella realtà, come siamo presenti, in un mondo intrinsecamente tragico? Come facciamo a uscire nuovamente per arrampicare, o vivere, per prendere decisioni che sappiamo essere imperfette e che, alla fine, si riveleranno sbagliate? E se sbagliate ci possono costare potenzialmente un prezzo molto alto? Dobbiamo ammettere che questo rischio esiste. E dobbiamo fare di più per rispettare ed addirittura idealizzare quelle persone che hanno dato la loro vita per insegnarci questo duro e terribile fatto. Dobbiamo pensare a loro, ricordarli, raccontare storie su di loro, riderne, ricordarle, perché sono qui con noi finché noi siamo qui.

Mi sento fortunato ad aver conosciuto Ueli. E il mondo è migliore perché lui ha vissuto in quella maniera. La sua scintilla di vita era così luminosa. La sua visione guardava così in avanti. Negli ultimi anni ho trovato accattivante la sua umiltà. Era vulnerabile con la gente, cosa che richiede una rara forza e sensibilità. Abbiamo bisogno di persone come lui, eroi umani. Abbiamo bisogno di essere ispirati dalla grandezza. Abbiamo bisogno di Ueli per aiutarci ad affrontare le nostre piccole paure. Abbiamo bisogno di lui per mostrarci cosa significa vivere veramente secondo i propri sogni.

Ueli ha modellato la nostra comunità e ha modellato l’alpinismo, credo nel modo migliore, prima vedendo e poi adattando i limiti dell'umanamente possibile. Un leader benevolo, che dà il buon esempio, è cosa rara nel litigioso mondo odierno. E' qualcosa che poche persone realizzano. Ueli ha vissuto ed è morto così, come questo tipo di leader. Grazie Ueli, non potremo mai ripagarti per aver vissuto la tua grandezza.

di Steve House

Steve House
Steve House è l'alpinista che in questi ultimi anni ha ispirato e motivato la "nouvelle vague" dell'alpinismo più puro. Quello che si declina con lo "stile alpino", sinonimo del salire leggeri e con mezzi ridottissimi, affrontando la montagna dalla base alla cima in un unico viaggio, senza soluzione di continuità. Nato nel 1970 in Oregon, laureato in scienze dell'ecologia, Steve House diventa guida alpina nel 1999. La grande notorietà arriva con la sua splendida solitaria del K7, nel 2004. Poi, ulteriormente ingigantita dall'incredibile avventura della prima salita del pilastro centrale dell'immensa parete Rupal del Nanga Parbat, portata a termine nel 2005 con Vincent Anderson. Una salita da Piolet d'Or che l'ha fatto entrare di diritto nel gotha del grande alpinismo di tutti i tempi. Ma poco o nulla si capirebbe del suo andare per montagne se non si partisse dall'origine, dalla sua "formazione alpinistica" sulle grandi e freddissime montagne dell'Alaska e delle Canadian Rockies. Infatti, è in Alaska sul McKinley o Denali che, nel 1995, a 25 anni, House apre una delle sue vie più notevoli. Ed è ancora sulla più grande e temuta montagna del Nord America che si ripete con altri due nuovi itinerari, nel 1996 e nel 1997. Ma non è facile elencare tutte le sue salite di rilievo prima della sua esplosione internazionale. Tra queste un posto particolare merita la difficile nuova via sul Monte Bradley, aperta in tre giorni, nel 1998, con il mitico Mark Twight e Jonny Blitz. Mentre nel 2000, sempre con Twight e Scott Backes, brillano le 60 ore della velocissima salita della diretta Slovacca al Denali. E, sempre a proposito di velocità, due anni dopo spicca la corsa, effettuata insieme a Rolando Garibotti, lungo la "Cresta infinita" del Mount Foraker: 20 ore per la salita e 5 per la discesa al posto dei 7 giorni che normalmente impegnano gli alpinisti. Poi, andrebbero almeno citate le sue 27 ore dal campo base alla cima del Cho Oyu e ritorno, un test di resistenza alle grandissime quote di tutto rispetto. Ecco, è questo vero e proprio percorso di formazione e crescita, che poi ha reso possibile tutto il resto. A partire da quella salita con cui House stupì il mondo dell'alpinismo: l'apertura solitaria di una nuova via sulla parete Sud Ovest del K7. Un'impresa, come s'è visto per nulla improvvisata, ma che lasciò tutti di stucco. Non solo per l'ardimento davvero eccezionale con cui era stata concepita, ma anche per lo stile purissimo con cui era stata compiuta. Fu un'autentica illuminazione per gli alpinisti. Sul K7, bellissima montagna pachistana della Charakusa Valley, House partì e ripartì per tre volte prima di afferrare il suo sogno in vetta. Una prova semplicemente impensabile, viste la difficoltà e i rischi che comportava. "Psicologicamente è stato difficile, certo..." ha spiegato lo stesso House a planetmountain.com "Ma ogni volta sono arrivato più vicino alla cima, perché ogni volta ho imparato qualcosa di più. Dovevo essere al mio meglio, e ci sono volute 3 volte per esserlo". Forse sta tutto qui il fascino del K7 di House, in questo vero e proprio viaggio di conoscenza. Un percorso che nel 2005 gli ha fruttato "solo", e non senza polemiche, il Piolet d'Or del pubblico per la migliore realizzazione dell'anno. Del resto la sua storia, come punto di riferimento per gli alpinisti di tutto il mondo, era appena all'inizio. Così l'anno dopo, nel 2005, House è ancora lì, in Himalaya, ad indicare la strada di un alpinismo che vuole mettersi alla prova per approfondire la conoscenza del sé. Questa volta la meta del viaggio è l'immensa parete Rupal del Nanga Parbat, e House l'affronta con Vicent Anderson, l'amico di sempre. I due partono e subito s'infilano dentro al "mostro", cercando la strada che hanno intuito dal basso, l'unica possibile in mezzo ai pericolosissimi seracchi. La loro è una vera e propria scommessa che, dopo 7 incredibili giorni, termina in cima a quella che è la salita dell'anno. La terza su quella mitica parete, la prima in stile alpino. E' la via da Oscar dell'alpinismo, ovvero il Piolet d'Or che consacra Steve House. Ma, appunto, chi cerca se stesso non ha mai finito il viaggio. E House non si ferma di certo. Continua con altre salite. Con altre avventure che privilegiano prima di tutto la ricerca di un'esperienza personale. Come le nuove vie sul Mount Robson e sul Mount Alberta, nelle Canadian Rockies. E come la pubblicazione di "Oltre la montagna" il libro in cui House racconta la sua storia, ma soprattutto guarda alla sua esperienza complessiva. Quella della vita che va oltre all'alpinismo e la montagna, ma che nell'alpinismo ha cercato e continua a cercare l'essenza del proprio essere. Perché il viaggio dentro se stessi, come quello in montagna, non ha mai veramente fine. (di Vinicio Stefanello)





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