Emanuele Andreozzi e la sua ripartenza sul Dent d'Hérens dopo l'incidente

Il 29enne alpinista Emanuele Andreozzi racconta la sua difficile ripartenza dopo un tremendo incidente avvenuto su una pista da sci sette mesi fa. Arrampicare sopra le nuvole sulla Cresta Albertini e il Dent d'Hérens in Valtournenche ha regalato emozioni che temeva di aver perso per sempre.
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Emanuele Andreozzi sulla cresta Albertini il primo giorno, sullo sfondo il Cervino
archivio Emanuele Andreozzi

La mia stagione invernale 2021/2022 stava procedendo piuttosto bene. Dopo aver scaldato i motori in autunno, salendo varie goulotte in quota con Silvestro Franchini e Rolando Varesco, a dicembre con Matteo Faletti e Franz Nardelli avevamo aperto una nuova via sulla parete nord della Busazza, 23 ore di attività non-stop. A febbraio con Franz avevamo ripetuto la Phantom Direct alle Grandes Jorasses, in un’avventura durata oltre trenta ore senza mai fermasi, mentre a fine aprile con Santi Padros sarei dovuto andare un mese e mezzo in Alaska dove volevamo scalare ripide pareti in puro stile alpino. Prima però avevo in mente ancora diversi progetti sulle nostre Alpi.

L’arrampicata alpina su terreno misto è ciò che prediligo fare in montagna; in estate vado quasi in letargo, per poi risvegliarmi in autunno al primo ghiaccio d’alta quota. Ma ciò che più in assoluto mi interessa fare nella mia vita è andare a scalare in spedizione in stile alpino sulle grandi catene montuose del mondo. Dunque, ho sofferto tantissimo i due anni di stop forzato a causa dalla pandemia, e la gioia di poter finalmente partire in spedizione in questa primavera 2022 era davvero immensa.

Poi è arrivato quel maledetto 4 marzo a cancellare tutti i miei sogni. Quel giorno, ero andato a sciare sulle piste della Paganella per prepararmi ad un esame di sci che avrei avuto a fine mese con i corsi guida. Sulla pista nera stavo facendo degli esercizi specifici sul corto-raggio e tra una serie e l’altra mi ero fermato verso il bordo della pista, quando improvvisamente sono stato colpito da dietro. Non ho visto nulla, ho solo sentito l’impatto di una violenza inaudita e il rumore delle ossa andare in frantumi. Sono stato catapultato in avanti decine e decine di metri, una volta fermo per terra, sentivo un dolore lancinante provenire dalla gamba, gridavo disperatamente; circa cinquanta metri sotto di me una persona sembrava essere nella mia stessa situazione e capivo lucidamente che doveva essere il mio investitore.

Nei giorni successivi, scoprii che si trattava di un incosciente ragazzino di appena sedici anni, che lanciato a folle velocità sulla pista più ripida del comprensorio e senza il minimo controllo degli sci, mi aveva centrato in pieno. Mi ritrovavo a terra, agonizzante ma sveglio, il dolore era terribile e nonostante il doppio strato di pantaloni potevo vedere gli spasmi del muscolo della coscia, che contorcendosi sulle affilate ossa rotte del femore, si lacerava ogni minuto di più. Sono subito arrivati i carabinieri ed il soccorso piste che hanno chiamato l’elicottero, ma data la gravità dell’incidente, nell’attesa non potevano fare nulla, neanche mettermi sulla barella. Bisognava per forza aspettare il medico e mi hanno spiegato che sulle piste da sci non è presente, dunque l’unica era aspettare l’elicottero e nel frattempo tenere duro e sperare di sopravvivere.

Sfortuna voleva che l’unico elicottero disponibile quel giorno era già impegnato in altri due soccorsi sulle piste da sci, dal lato opposto del Trentino e alla fine ci impiegherà oltre un’ora ad arrivare da me. Mi ritrovavo così per terra in fin di vita, con un carabiniere che come un angelo mi teneva la testa tra le sue mani e cercava di darmi conforto, non smetterò mai di ringraziarlo. I minuti in quello stato sembravano ore, il tempo non passava mai. Urlavo senza sosta dal dolore e chiedevo disperatamente un po’ di morfina per alleviare il male, ma nessuno poteva aiutarmi, ovviamente solo un medico può somministrare farmaci. Dopo un’ora di dura resistenza, il mio cuore non ce la faceva più a reggere, sentivo nitidamente come iniziava a stentare, ero lucido nel percepire di stare per lasciare questo mondo. È stato un momento terribile. L’elicottero con l’equipe medica arrivò appena in tempo per salvarmi la vita.

Sono stato sedato e intubato direttamente in pista, per poi essere operato d’urgenza all’ospedale Santa Chiara di Trento; tutti, me compreso, al risveglio pensavano che il peggio fosse ormai passato, purtroppo non è stato così. Qualcosa, durante la lunga operazione, non era andato per il verso giusto (il cosa al momento non posso ancora raccontarlo). Dopo due settimane circa, mi sono fatto trasferire in una clinica privata a Bolzano, dove sono poi stato operato altre due volte da un chirurgo davvero in gamba.

In tutto ho subito ben tre interventi in anestesia totale da oltre cinque ore ciascuno nell’arco di un mese. Trasfusioni di sangue e morfina a fiumi erano diventate la mia quotidianità; in particolare, i giorni dopo il terzo intervento sono stati i più duri in assoluto, quando rimasi a lungo attaccato al monitor delle funzioni vitali. L'unico panorama era il soffitto bianco della mia camera, alle montagne non ci pensavo, stavo talmente male che volevo solo uscire da quella situazione e stare bene.

Dopo due mesi sono stato dimesso ed ho iniziato la lunghissima riabilitazione e finalmente potevo anche pensare di riprendere in mano la mia vita. Avevo ancora diverse complicazioni e per questo motivo facevo il giro delle migliori cliniche, dove alla fine tutti i medici mi dicevano sempre una cosa: "lei è stato molto fortunato, con un trauma del genere normalmente si muore"; aggiungevano inoltre che ero sopravvissuto grazie alla corporatura da atleta, altrimenti... Inoltre, l’arteria femorale era andata davvero vicinissima ad essere perforata dall’osso, in quel caso sarei morto dissanguato in pochi minuti, data l’assurda assenza di un medico tra il soccorso pista. Insomma, mi è stato messo subito chiaro che fosse meglio guardare al futuro semplicemente felice di poterne ancora avere uno e senza pensare a cosa mi sono perso a causa di questo incidente, pazienza se la mia gamba non tornerà mai più quella di prima.

A fine estate, dopo mesi di riabilitazione, la normalità nella mia vita quotidiana era - ed è tuttora - ancora lontana, ma le cose procedevano bene. Passo dopo passo avevo ricominciato a fare un po’ di dislivello ed anche a scalare in falesia, ad agosto ero riuscito a salire qualche facile 4.000, perlopiù nel massiccio del Monte Rosa e andando di rifugio in rifugio.

Dopo tutto ciò che avevo passato, era meraviglioso tornare a respirare l’aria di montagna anche così; a settembre però, mi venne proprio voglia di trascorrere qualche giorno in un posto selvaggio ed isolato, lontano dalle tracce affollate e battute come un’autostrada. Insomma, vivere di nuovo la montagna come mi è sempre piaciuta, ma trovando allo stesso tempo una salita abbordabile per le mie condizioni. L’ultima cosa che di cui avevo bisogno era di tribolare o peggio farmi di nuovo male.

La Cresta Albertini in Valtournenche rispondeva perfettamente ai miei requisiti: difficoltà globale D, roccia solida, un bivacco a metà via che permette di spezzare la salita in due giorni da circa mille metri di dislivello ciascuno ed il locale invernale del Rifugio Aosta come secondo pernotto, per poi dedicare il terzo ed ultimo giorno interamente alla discesa. Dunque, tre giorni pieni; verrebbe da ridere pensando che anni fa questo tipo di salite le compivo in giornata, come avevo fatto sulla Cresta integrale del Brouillard o sull’Integrale dell’Innominata, o ancora sulla Kuffner partendo sempre dal fondovalle, senza usare impianti e rifugi.

Il 21 settembre a mezzogiorno in punto, con la mia fidanzata Vaida Vaivadaite partimmo da Cervinia. Vaida è di origine lituana e si è trasferita in Italia da poco meno di dieci anni, l’anno scorso si è prefissata l’obbiettivo di salire tutte le 82 cime ufficiali sopra i 4.000 delle Alpi; un bel progetto a lungo termine che intende portare avanti con calma, nell’arco della sua vita. Anche per questo motivo il nostro programma era di non fermarsi alla spalla a quota 3.950, dove la Cresta Albertini termina, ma proseguire fino ai 4.174 della vetta del Dent d'Herens, attraverso la parte finale della misteriosa Cresta Est.

Dopo un paio d’ore di avvicinamento arrivammo all’attacco della cresta, rimontiamo subito sulla Cengia d’Oro e al suo termine iniziammo la scalata vera e propria. Eravamo immersi nella nebbia, partii scalando in traverso e appena girato l’angolo, mi ritrovai l’intero tiro attrezzato con una corda fissa. Quando impareremo a lasciare le montagne pulite come le abbiamo trovate non sarà mai troppo tardi. Critichiamo ciò che accade sugli 8.000 e poi sulle montagne di casa nostra ci comportiamo nella stessa identica maniera, assurdo.

Proseguimmo ad arrampicare avvolti dalla nebbia, per poi sbucare improvvisamente sopra le nuvole. Si aprì così alla nostra vista un panorama splendido, con la piramide del Cervino in bella vista, accesa dal tiepido sole del tardo pomeriggio. Penso non ci sia niente di più bello in montagna che arrampicare sopra il mare di nuvole. Dopo aver patito tanta sofferenza, finalmente potevo riempire il cuore e gli occhi di tutta quella bellezza. Arrivammo al Bivacco Camillotto-Pellissier (3325 m di quota) giusto in tempo per goderci il tramonto, era uno di quei momenti in cui non potevo chiedere di più dalla vita. Guardando il panorama al tramonto e pensando a qualche mese prima, quando l’unica vista che avevo era il bianco soffitto della mia camera in ospedale, fu inevitabile emozionarmi.

La mattina successiva, alle sette in punto, eravamo fuori dal bivacco, pronti a gustarci l’alba, c’era ancora il mare di nuvole sotto di noi, e nuovamente lo spettacolo era da togliere il fiato. Proseguimmo sulla cresta, muovendoci in corda corta, salvo nei punti più ripidi dove fu necessario fare qualche breve tiro. Con il sole ormai alto nel cielo sbucammo alla spalla, dove termina la cresta Albertini e da lì ci dirigemmo verso la Cresta Est. Osservando ciò che avevamo davanti, un po’ fummo intimoriti dal grande gendarme che precede la vetta del Dent d'Hérens, dalla nostra prospettiva sembrava davvero verticale e affilatissimo. Speravamo sopratutto non fosse troppo marcio, visto che le uniche informazioni reperibili su internet avvisavano proprio della roccia friabile.

Arrivati sotto la cresta, salii un tiro di quarto grado non troppo brutto e quando la roccia peggiorò, il terreno era ormai talmente poco ripido che non si poteva parlare di arrampicata, dunque feci sosta, una volta recuperata Vaida proseguimmo in corda corta arrivando subito al filo di cresta. Abbiamo seguito fedelmente il filo della cresta, constatando con piacere come la roccia migliorava ad ogni passo, fin quando non è diventata solida e di ottima qualità una vola giunti alla base del grande gendarme. Arrampicando su ottimo gneiss, arrivai al tratto chiave, ritrovandomi a scalare su una fantastica placca color arancio-rosato, neanche fossimo sul miglior granito del Monte Bianco; dopo pochi metri il terreno era già tornato più facile, così attrezzai una sosta. Da lì senza più ostacoli arrivammo in cima al grande gendarme e seguendo sempre il filo di cresta roccioso, finalmente sulla vetta del Dent d'Hérens.

Dopo le foto di rito, iniziammo subito la discesa. Una volta messo piede sul ghiacciaio, iniziò per noi una sorta di seconda avventura a se stante, il ghiacciaio era estremamente crepacciato e fu un lunghissimo girovagare avanti e indietro. Le ore passavano in fretta e ad un certo punto arrivò anche la notte, ma armati di frontalino e perseveranza, riuscimmo sempre a trovare un ponte che permise di proseguire e alla fine raggiungere il tanto sospirato locale invernale del Rifugio Aosta. La mattina dopo con calma scendemmo a valle e per me fu il tratto di maggiore sofferenza di tutto il giro, ma dopo un’avventura del genere posso dire di averlo affronto volentieri. Se qualcuno mi avesse visto muovermi così goffamente sul sentiero di discesa, per di più con corda e piccozza ben visibili sullo zaino, probabilmente si sarebbe domandato che razza di incapaci girano al giorno d’oggi in alta montagna. Ma fortunatamente, il primo essere umano incontrato dopo tre giorni di assoluta solitudine fu il gestore del Rifugio Prarayer che ci accolse per la merenda; da lì mancava ormai solo un’oretta scarsa per terminare il nostro giro e tornare alla civiltà.

Concludo dicendo che quando il redattore di Planetmountain mi ha chiesto se volessi raccontare la mia sfortunatissima storia, ho dovuto davvero pensarci un po’ prima di accettare; scriverla avrebbe voluto dire rivivere intensamente quei terribili momenti e versare inevitabilmente anche qualche lacrima. Non ero certo di sentirmi ancora pronto, ma alla fine anche incoraggiato da Vaida, ho accettato e deciso di affrontare questo piccolo ma doloroso processo.

di Emanuele Andreozzi




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