The Montane Yukon Arctic Ultra, immersi nel selvaggio Nord

Il 4 febbraio scorso ha preso il via da Whitehorse (Yukon, Canada) una delle ultra trail più dure e affascinati, una corsa che rivive quel mito del grande Nord e della sua immensa natura cantato dall'immortale Jack London. Il report di Andrea Benesso.
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Braeburn Llake all'alba durante il Montane Yukon Arctic Ultra 2016 in Canada
Andrea Benesso
“Cupe foreste di abeti rossi s’affacciavano arcigne sulle due rive del fiume gelato”: bisogna avere la prosa epica di Jack London per descrivere una gara come la Yukon Arctic Ultra, “the world coldest and toughest ultra”.

Ogni anno, a Whitehorse, nello Yukon, in Canada, si danno appuntamento i runner in cerca di sfide estreme. Una natura ancora padrona, un clima difficile e a dir poco imprevedibile ed un isolamento totale fanno di questa gara in autonomia un evento per pochi: 70 gli iscritti alle 3 distanze, la maratona, la 100 miglia e la 300 miglia. I partecipanti parlano di esperienza, solitudine, forza, sfida, unicità, energia e soprattutto di qualcosa, inafferrabile, che una volta sfiorato, ti rimane dentro. E c’è da crederci: lo Yukon conserva intatta la magia di una natura ancora padrona, dove l’uomo si sente fragile ospite, dove bastano pochi chilometri per avere la sensazione, ai più sconosciuta, di totale smarrimento.

I partecipanti partono con la slitta e un equipaggiamento che deve garantire loro autonomia e sicurezza, con cambi d’abito, tenda, sacco a pelo, cibo e acqua: solitamente sono circa 25 chili. Dopo pochi chilometri ognuno è già solo con se stesso, con il freddo e con un mutevole orizzonte bianco: si corre sul fiume Yukon e sulla superficie dei laghi ghiacciati, si percorrono sentieri dentro enormi foreste che in pochi chilometri alternano pini secolari, faggi e vegetazione più rada. Di notte, le temperature, sempre attorno ai meno dieci gradi, raggiungono il meno 35: c’è chi affronta il freddo non fermandosi mai, chi si chiude nel sacco a pelo. Il nemico è il congelamento, che colpisce piedi, mani e nasi rendendoli di un preoccupante colore blu.

Il vincitore della 100 miglia, Michele Graglia, ha terminato in poco più di 21 ore, un tempo straordinario, concedendosi solo pochi minuti di pausa e arrivando comunque con un leggero congelamento ai piedi e ad un occhio: ci ha raccontato della durezza degli ultimi chilometri, prima dell’alba, dei lupi che gli hanno attraversato il cammino, ma non servivano parole per cogliere nei suoi occhi la gioia di un’impresa autentica, fatta di una grande prestazione atletica, ma anche di una tranquillità mentale che permette di attraversare un tipo di notte e di natura che noi, uomini di città, non conosciamo, e che risveglia sensazioni antiche.

Diversa la prestazione del vincitore della 300 miglia (480 km!), Jan Kriska, medico americano che in 4 giorni ha dovuto soprattutto gestire la fatica e il freddo. L’ho incontrato dopo 150 kilometri, in un bosco in cui la temperatura era meno 25, e sopra la barba ghiacciata un sorriso sincero parlava di stanchezza, ma anche di meraviglia, per i panorami che si aprono all’improvviso, per le stelle.

Alcuni partecipanti scelgono la fat bike, mountain bike con le ruote larghe, che dà il vantaggio della velocità, ma impone un bagaglio più selezionato e anche un abbigliamento più pesante: Florian Reiterberger è il primo assoluto al traguardo in sella alle due ruote.

I partecipanti non ricevono alcuna assistenza nel corso della gara, ma sono controllati tramite la tecnologia Spot, che consente di monitorarne la posizione e anche di lanciare un segnale di soccorso, tenendo conto che i telefoni non funzionano praticamente mai: le motoslitte potrebbero arrivare dopo ore, per cui tutti devono essere in grado di gestire una eventuale emergenza, che a meno 30 potrebbe essere potenzialmente molto pericolosa.

I motivi per cui si sceglie di affrontare una gara come questa, impegnativa, pericolosa e anche costosa, sono diversi, e il gruppo proveniente dall’Italia li rappresenta quasi tutti: per Domenico Barbalace si tratta di un ricerca della prestazione in un contesto naturale unico, per Renzo Moltrasio dell’esperienza della una solitudine autentica, per Omar Mohamed Alì e Davide Ugolini di un ritorno alla natura più vera e essenziale, per Davide Lugato di una gara che mette alla prova all’estremo le capacità di un atleta.

Alla fine però, la motivazione nascosta di tutti i partecipanti è una sola: Jack London! non tanto perché Zanna Bianca sia il libro che portano nella borsa, quanto perché è proprio la sua frontiera selvaggia quella che gli atleti si trovano ad inseguire, quel brivido primordiale che in qualche in modo, almeno per qualche giorno, regala un senso al nostro affannarci.

Andrea Benesso
www.adventureawards.it




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